Editoriali 05/02/2011

Panico sui mercati agricoli mondiali


Senza sussidi agricoli nei paesi industrializzati a soffrire sono le popolazioni delle nazioni povere.

Pare un controsenso, i terzomondisti hanno sempre spiegato che sono gli aiuti alla produzione a soffocare le agricolture dei paesi in via di sviluppo, che sono i ricchi ad avere e pretendere troppo, a schiacciare la crescita dei settori primari in Africa e in tutti quei territori che, ancor oggi, vivono sotto il limite di povertà.

Senza la produzione agricola dei paesi ricchi, però, non c'è abbastanza cibo per i paesi poveri. Questo è quanto sta drammaticamente avvenendo.
E' del 3 febbraio l'allarme lanciato dalla Fao su un nuovo incremento dei prezzi delle principali derrate alimentari. L'Indice ha registrato una media di 231 punti in gennaio, un incremento del 3,4% rispetto al dicembre 2010.  Si tratta del livello più alto, sia in termini reali che in termini nominali, da quando la Fao ha iniziato a misurare i prezzi alimentari nel 1990.

Appena qualche giorno prima era stato Pascal Lamy, il numero uno dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) a appellarsi alla coscienza dei governanti, in particolare chiedendo di abolire tutte le formule di restrizione all'export che hanno favorito un impennata globale dei prezzi del cibo. Nel suo messaggio Lamy spiega a chiare note che l'impennata dei prezzi, legata alla frenata delle esportazioni di alcuni Paesi produttori, anche se colpiti da inondazioni e siccità, rischiano di fomentare rivolte come quella in Tunisia e di far impennare verso l'alto l'inflazione. Le restrizioni dell'export portano il panico sui mercati, quando più attori vedono i prezzi salire a livelli stellari.

Lamy, tuttavia, chiede un'apertura politica impossibile, ovvero che la nazione industrializzata che vede in pericolo il proprio approvvigionamento alimentare, per le più svariate cause, pensi prima al bene globale piuttosto che a quello dei suoi cittadini.
Le nazioni, per loro stessa natura, sono soggetti egoisti, portatori di interessi particolari che accettano accordi internazionali nei limiti in cui questi li favoriscano.
Non è cinismo, solo real politik e negarlo sarebbe ipocrita.

Analizzando quanto sta accadendo, possiamo affermare che i Paesi industrializzati, per ragioni di bilancio e spinti da opinion leader terzomondisti, hanno disimpegnato fondi per le politiche agricole, di fatto riducendo le proprie capacità di governance del settore primario. Questo ha implicato e sta implicando una progressiva riduzione delle superfici coltivate e un maggiore utilizzo di suolo per le colture no food, attualmente più redditizie. Meno suolo coltivato significa una minore produzione di derrate alimentari. In questo scenario vanno ad aggiungersi gli effetti dei cambiamenti climatici, con eventi, più o meno catastrofici, che possono ridurre, anche sensibilmente, le produzioni agricole di determinati territori. Se aggiungiamo che, ormai, vi è una elevatissima specializzazione colturale in singoli Paesi è chiaro che un evento catastrofico in una singola nazione può avere una ricaduta globale, anche perchè non vi sono più stock sufficienti a compensare cali produttivi.

Esagerato?
Lo stesso Lamy indica nelle restrizioni alle esportazioni di cereali di Ucraina e Russia l'attuale incremento vertiginoso dei prezzi agricoli.

Entro il 2050, secondo la Fao, sarà necessario raddoppiare la produzione mondiale di derrate alimentari ma per ottenere questo risultato, oltre che far progredire e migliorare le agricolture dei paesi poveri, sarà necessario incrementare sensibilmente la produttività nelle nazioni ricche, operazione possibile solo attraverso una strategia di governance che preveda di ripristinare delle vere politiche agricole anche perchè, nell'occidente capitalista, l'unico modo che hai per “costringere” un imprenditorie a seguire una rotta è di rendergliela appetibile e conveniente, con buona pace dei terzomondisti.

di Ernesto Vania