Articoli 03/01/2004

GIUSEPPE PONTIGGIA: “IL LINGUAGGIO E’ IL BANCO DI PROVA DELLE ESPERIENZE. LO SI UTILIZZA PER ELUDERE, AGGREDIRE, NASCONDERSI, NON PER ILLUMINARE LA REALTA’ NELLA SUA CHIAREZZA”

A sei mesi dalla scomparsa, presentiamo una nostra intervista al grande scrittore. Presso Mondadori è in programmazione l’uscita, nel corso del 2004, di un “meridiano” che raccoglie l’intera opera


Giuseppe Pontiggia è scomparso prematuramente a Milano il 27 giugno scorso. In tanti lo hanno ricordato in questi mesi per essere stato un solido punto di riferimento. Non soltanto per la sua opera, molto apprezzata da critica e lettori, anche per la grande umanità che lo ha contraddistinto.
Ai lettori di “Teatro Naturale” ho voluto perciò riproporre una intervista che lo scrittore mi ha rilasciato nel 2000, in occasione dell’uscita del romanzo che più lo ha messo a nudo,
Nati due volte.

Si tratta del resoconto, per certi versi in chiave autobiografica, dell’esperienza di un padre, e di una vita, messa a soqquadro dalla nascita di un figlio disabile.
Ho scelto questa intervista, e non altre, perché ritengo sia da considerarsi il punto di partenza per chi si voglia accostare per la prima volta all’opera e alla figura di Pontiggia. Ma ecco il testo. Buona lettura.




INTERVISTA A GIUSEPPE PONTIGGIA
La condizione del disabile crea non pochi imbarazzi, soprattutto in una società abituata a esaltare la perfezione della forma e a preferire alla sostanza l'apparenza. Ma la situazione di disagio nei confronti degli handicappati, e in certi casi anche di disappunto e di fastidio, investe pure la società colta. Non soltanto la gente comune, dunque, quella più frettolosa e spesso sopraffatta dai falsi miti dell'efficienza. La diversità resta comunque un tema insolito e alquanto scomodo da affrontare. Stupisce pertanto la recente prova narrativa dello scrittore Giuseppe Pontiggia, che con il romanzoNati due volte si è invece misurato – con esiti peraltro felicissimi e senza mai cadere in facili pietismi o, peggio, in una retorica di maniera – con una realtà non semplice da affrontare e neppure, come tale, "conveniente" da proporre al vasto mondo dei lettori. Un po' perché Pontiggia è narratore abile e profondo, un po' perché l'esperienza dell'handicap l'ha vissuta e sperimentata in prima persona attraverso il figlio

L'aver sostenuto un tema così diretto, vissuto giorno dopo giorno sulla propria pelle non è stata un'operazione da poco…
E' stato assai difficile. Ho impiegato alcuni mesi per superare una serie di resistenze, e anche di angosce, per i problemi legati alla mia storia personale. Ma ho rinunciato ad essere autobiografico in senso stretto per affidarmi in via privilegiata all'invenzione.
Ho cercato così di avvicinare e di scrutare il tema dell'handicap da molte angolazioni, non soltanto presentandolo nella sua veste drammatica, che ci è più abituale, ma anche in quella ironica - attraverso una lettura satirica e perfino grottesca - evitando molto opportunamente di risultare monocolore e di presentare un quadro piuttosto uniforme e chiuso in se stesso. Ho cercato quindi una visione "a scopi" del problema, sia dal punto di vista tematico che di quello espressivo. Con ciò dimostrando che la materia stessa richiede un approccio molteplice, non più univoco com'è avvenuto finora. Un approccio dunque aperto a molti punti di vista, alcuni dei quali peraltro molto felici e di straordinaria intensità.

La prima difficoltà nell'approccio con il mondo dell'handicap credo che la si incontri da subito sul fronte del linguaggio, con le sue molte insidie. Il termine "spastico", ad esempio, dà spesso luogo a malcelati imbarazzi e le difficoltà nel cercare altre espressioni, più "morbide", sono notevoli. In altri casi, alcune formule espressive, assai poco cortesi, sono addirittura discriminatorie.
Con la stesura del romanzo ho avuto la conferma che effettivamente il linguaggio è il banco di prova delle esperienze. Gli uomini si servono del linguaggio per eludere, per aggredire, per nascondersi, raramente invece per illuminare la realtà nella sua chiarezza. Quindi, anche di fronte al problema dell'handicap troviamo degli atteggiamenti dispregiativi, di chi se ne serve in modo liquidatorio. Troviamo gli atteggiamenti reticenti dei genitori, per esempio, che si difendono attraverso il linguaggio dalla paura di constatare la gravità del problema.
Nella vicenda di cui narro, colui che in fondo dimostra di essere il più equilibrato nella famiglia è proprio il figlio disabile. Questi ha una semplicità straordinaria nel dire le cose come stanno, proprio perché convive con l'handicap dalla nascita e non si difende, attraverso il linguaggio, da una paura che ha già superato. Il padre, facendo peraltro l'insegnante, avrebbe dovuto educare il figlio a muoversi nel mondo, invece nel corso degli anni impara proprio dal figlio ad accettare e a comprendere l'handicap.
Il linguaggio in generale, e in particolare nella situazione della disabilità, richiede una estrema sorveglianza, una grande delicatezza, un particolare riguardo. Attraverso il linguaggio noi difendiamo le nostre esperienze, cerchiamo di attenuarne gli aspetti terribili o di esaltare gli aspetti positivi.

Nel romanzo la famiglia diventa luogo d'elezione, terreno d'incontro e di confronto. Rappresenta come un baluardo a difesa dal mondo esterno, un luogo protettivo sicuro e inattaccabile. Eppure, si scopre che all'interno non tutto è facile e immediato e che le conquiste di ogni giorno sono dure e faticose.
Credo che la forma narrativa possa avere una sua efficacia unica, anche se non esclusiva, nell'affrontare il tema della disabilità, perché mostra dal vivo una serie di elementi, di fatti che concorrono a non farci capire l'uomo, a non farcelo accettare nella sua realtà. Il racconto di una famiglia in cui il padre insegnante impara dal figlio una sorta di arte del vivere, in coabitazione con l'handicap, è un aspetto significativo.
Alla fine si scopre ch'è proprio il figlio a insegnare al padre come va affrontata, con lucidità e serenità, una minorazione. La madre al contrario è piena di slancio e dedizione, ma a sua volta proietta nel figlio forme di nevrosi e di angosce che le appartengono e che non riguardano il figlio.
La nonna paterna, invece, impiega tutta una vita per capire che non è quello che mangia il nipote ad aver senso e valore, ma quello che il nipote ha da dare agli altri, ed è tanto. Il suocero dell'insegnante, invece, ch'è un uomo piuttosto autoritario, un igienista e un salutista, non capirà mai e cercherà sempre di illudersi che il nipote possa diventare normale. Come se questo fosse un traguardo importante. Finirà invece con il morire disabile nella mente. Questo aspetto io l'ho raccontato anche in modo grottesco, e perfino comico. Ho inteso mettere in luce come l'handicap della mente, o del fisico, ch'è un limite, nella disabilità fa acquisire aspetti vistosi che in forme comportamentali diverse, ciascuno di noi comunque vive. Tutti noi abbiamo infatti delle forme di disabilità - emotiva, psicologica, intellettuale - e dobbiamo abituarci a considerare il limite come caratteristica fondamentale della nostra esperienza del vivere. Accanto a questa ragione, c'è anche l'importanza di superare il limite tutte le volte ch'è possibile, ed è necessario e bello. E soprattutto, quando non è possibile superare i nostri limiti, si rende necessario non solo accettarli, ma addirittura amarli. L'uomo, d'altra parte, era comunemente definito dagli antichi con il termine di mortale. Prendere coscienza del limite significa anche prendere coscienza di se stessi, della propria natura.

Leggendo "Nati due volte" si scorgono tante figure istituzionali messe a nudo senza reticenze e si nota pure, con grande amarezza, il fallimento dei luoghi deputati alla educazione e alla riabilitazione dei ragazzi disabili.
Uno degli aspetti paradossali del romanzo è che la disabilità rivela e mette a nudo la disabilità di coloro che dovrebbero curarla, in particolare i medici e la scuola. Nati due volte mostra l'inadeguatezza, lo sconcerto, l'impreparazione della società nell'affrontare nel modo più adeguato il problema dell'handicap.
Ora, se io faccio un bilancio retrospettivo vedo che in trent'anni la società ha fatto molti passi in avanti. Trent'anni fa il disabile veniva vissuto spesso come una vergogna, quasi una colpa da tenere nascosta. Nella scuola venivano infatti emarginati e destinati nelle sezioni speciali. La medicina era spesso impreparata a prevenire e a curare in modo tempestivo. Molti passi in avanti sono stati compiuti, ma la visione delle persone, la mentalità, deve secondo me colmare ancora una distanza importante. In modi diversi si ripropongono ancora nuove forme di discriminazione, magari fondate su una ideologia che nelle intenzioni vuole essere di aiuto e di sostegno, ma che nei fatti poi si rivela inadeguata.
In fondo, il padre-io narrante del romanzo vuole che il figlio venga accettato non come identico agli altri, ma come diverso dagli altri, con una diversità che ha i medesimi diritti, ma che richiede un'attenzione un po' particolare.

Bibliografia

Nato a Como nel 1934, Giuseppe Pontiggia ha pubblicato:
La morte in banca, Quaderni del Verri 1959, nuova edizione Mondadori 1979, 1991;
L’arte della fuga, Adelphi 1968, nuova edizione 1990;
Il giocatore invisibile, Mondadori 1978;
Il raggio d’ombra, Mondadori 1983, nuova edizione 1988;
Il giardino delle Esperidi, Adelphi 1984;
La grande sera, Mondadori 1989, Premio Strega 1989, nuova edizione 1995;
Le sabbie immobili, Il Mulino, Premio satira Politica Forte dei Marmi 1992;
Vite di uomini non illustri, Mondadori 1993, Premio Super Flaiano 1994;
L’isola volante, Mondadori 1996, Premio Palazzo al Bosco 1997;
I contemporanei del futuro, Mondadori 1988, Premio Brancati e Premio Rhegium Julii 1999;
Nati due volte, Mondadori 2000, Premio P.E.N. Club, Campiello e altri;
Prima persona, Mondadori 2002.
Nel 2002 ha ricevuto il Premio Nietzsche.

di Luigi Caricato