Editoriali 03/11/2017

Il vero valore delle Dop va oltre il fatturato

Se l'Italia vuole investire sulla biodiversità deve avere un agricoltura non può ammettere accordi che puntano al ribasso perché il grande rischio che si accetta di correre è quello di agevolare l’omologazione e ridurre gli spazi della tipicità, della distintività e del “made in Italy”. Il parere di Stefano Masini, Responsabile Area Ambiente e Territorio di Coldiretti 


Il paradosso della crescente apertura dei mercati nazionali ad una globalizzazione asimmetrica per standard produttivi e livelli di informazione al consumatore, è chiaramente espresso dai numeri che evidenziano come i Paesi terzi nei quali si esporta maggiormente il made in Italy, quali il Nord ed il Centro America, siano anche i Paesi nei quali si consumano con più frequenza i casi di contraffazione ed italian sounding, per un ammontare di circa 27 miliardi di euro (Ambrosetti Club. The European House - Ambrosetti, Sfide e priorità per il settore alimentare oggi. Strumenti e approcci per la competitività, 2017).

Così, un ulteriore colpo all’autentico gusto italiano sembra pronto ad essere inferto dall’Accordo economico e commerciale globale tra l’Europa ed i suoi Stati membri, da un lato, ed il Canada dall’altro. A cominciare dai ritagli di tutele riservate a danno delle eccellenze agroalimentari italiane.

L’Italia rappresenta, a livello mondiale, la più grande riserva di biodiversità e distintività per numero di Dop ed Igp registrate. Eppure, a fronte delle ben 292 indicazioni geografiche protette, l’Accordo si limita a riconoscerne appena 41. I sostenitori del CETA fanno presente che tra le 41 indicazioni iscritte nella lista degli ammessi sono comprese quelle dei Consorzi più grandi.

Ma se questo è stato il criterio seguito, basato sui volumi del fatturato, si finisce per dimenticare il senso che ispira il sistema europeo delle indicazioni geografiche, diretto a valorizzare un modello di agricoltura basato sulle caratteristiche locali - fondate su ambiente, storia, cultura e tradizione - che costituisce il tratto tipico di un’economia di successo, tanto da far registrare risultati positivi al made in Italy in tutto il mondo. Il sostegno ad un tale modello di sviluppo rappresenta, del resto, l’unica via percorribile per rafforzare il legame degli agricoltori con il territorio e per consolidare il patto di fiducia con i consumatori che chiedono tracciabilità e trasparenza in etichetta delle caratteristiche che compongono gli alimenti, con particolare riguardo alla loro origine. La biodiversità rappresenta la ricchezza naturale e genetica sui cui investire per garantire forme differenziate di accesso al mercato.

Si tratta di un tipo di agricoltura che non può ammettere accordi che puntano al ribasso perché il grande rischio che si accetta di correre è quello di agevolare l’omologazione e ridurre gli spazi della tipicità, della distintività e del “made in Italy”.

Tra l’altro, il CETA depenna, in un solo colpo, la quasi totalità delle Dop e Igp delle regioni italiane del Sud: infatti, ad eccezione della mozzarella di bufala campana DOP, prodotta in Campania, Molise e Puglia, queste regioni, insieme con la Basilicata e la Calabria non si vedono riconosciute nemmeno un prodotto. Per la Sicilia si fa eccezione esclusivamente per l’Arancia rossa di Sicilia Igp e per il cappero di Pantelleria Igp ed il Pomodoro di Pachino Igp. Mentre a nessun olio risulta riconosciuta tutela: quasi una provocazione!

E, ancora, verrebbe da chiedersi: perché riconoscere il Pomodoro di Pachino e non anche il Pomodoro San Marzano dell’Agro Sarnese-Nocerino?

Le Dop ed Igp attualmente escluse dall’elenco non riceveranno, neppure in futuro, una tutela, dal momento che il CETA ha previsto una lista “bloccata” che impedisce l’inserimento di altre denominazioni geografiche già registrate, essendo possibile soltanto la registrazione di nuove Dop o Igp.

Ma, ancora, potrebbe domandarsi: che tipo di tutela è riservato alle Dop ed Igp riconosciute dal Canada? Il CETA, insieme con i suoi numerosi allegati, ammette, ad esempio, la coesistenza delle denominazioni geografiche con i marchi già registrati o in uso in Canada, come, ad esempio il marchio “San Daniele”, in cui la scritta è riportata all’interno di un ovale con il tricolore italiano regolarmente impiegato per la commercializzazione di prosciutto crudo e mortadella non italiani. Continuano, inoltre, ad essere ammesse le “volgarizzazioni” legate ai nomi dei prodotti tipici dell’italian sounding (ad esempio, il Parmesan) nonostante i contenziosi avviati dall’Italia a livello europeo per ottenere la tutela del Parmigiano reggiano.

Vi sono, ancora, prodotti come l’Asiago, la Fontina ed il Gorgonzola che in Canada potranno essere liberamente utilizzati come nomi generici di formaggi, purchè accompagnati da termini quali “tipo”, “stile”, “genere”. Da notare che l’aggiunta di tali termini di specificazione è prevista, però, solo per i prodotti immessi sul mercato prima del 18 ottobre 2013; gli altri, quindi, potranno essere commercializzati senza alcuna indicazione aggiuntiva.

Le preoccupazioni sull’entrata in vigore dell’Accordo risultano, pertanto, legittime e fondate. Bisognerebbe, allora, cogliere l’opportunità di rivedere con maggiore oggettività le condizioni di danno effettivo che derivano dall’applicazione definitiva del CETA, rinviandone il voto nei Parlamenti nazionali, per evitare di dover correre ai ripari con interventi emergenziali.

di Stefano Masini

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