Italia 25/06/2015

Lo sfruttamento nelle campagne: Filiera Sporca

Sicilia e Calabria che non vorresti tra storie di sfruttamento e di coercizione. Laddove dominano gli aranceti c'è un mondo opaco, dove a comandare e a far soldi sono gli intermediari. Chi ci rimette? Braccianti e piccoli agricoltori


Agrumi che vengono da terra assolate di Sicilia, Calabria e Puglia ma non sempre è tutto oro quel che luccica.

Un rapporto, denominato Filiera Sporca, realizzato dalle associazioni daSud, Terra! Onlus, Terrelibere.org, squarcia un velo su una filiera dove c'è spazio per sfruttamento e illegalità. Troppo spazio, purtroppo.

La scelta di indagare la filiera degli agrumi nasce dal fatto che essa, forse piú di altre, si compone di innumerevoli passaggi, quasi mai trasparenti. “Il cuore della filiera é un ceto di intermediari che accumula ricchezza, organizza le raccolte usando i caporali, determina il prezzo, impoverisce i piccoli produttori, acquista i loro terreni e causa la povertá dei migranti negando loro un’accoglienza dignitosa”, denuncia Antonello Mangano, curatore del rapporto.

Nel report conclusivo si prova a ricostruire tutti i passaggi che portano il prodotto raccolto dall’albero fino al consumatore finale, mettendo in evidenza che i punti oscuri sono tanti.

Dal campo allo scaffale, per individuare i veri invisibili dello sfruttamento del lavoro in agricoltura. Un percorso gestito e diretto dai grandi commercianti locali che organizzano le squadre di raccolta, prendono accordi con le aziende di trasporto e con le multinazionali. Ed è proprio in questi passaggi che si inseriscono gli interessi dei caporali e della criminalità organizzata.

Tutta l’Europa mediterranea produce in condizioni di grave sfruttamento i prodotti ortofrutticoli destinati in gran parte ai mercati del Nord. Il modello si sta estendendo e non risparmia regioni un tempo immuni come ad esempio il Piemonte. Nella filiera delle arance convivono il bracciante agricolo sfruttato e la multinazionale, la grande distribuzione e la criminalità organizzata. Dal ghetto di Rignano (Foggia), alla baraccopoli-tendopoli di Rosarno (Reggio Calabria), fino all'area di Saluzzo (Cuneo), lo sfruttamento ha le stesse caratteristiche: un uso intensivo di manodopera migrante altamente ricattabile; situazioni abitative al di sotto degli standard minimi della dignità umana; bassi guadagni a fronte di molte ore di lavoro; una “cultura imprenditoriale” basata sull’illegalità e sulla presenza mafiosa; manodopera organizzata in squadre e capisquadra, con conseguente ricorso al caporalato. I braccianti spesso non vengono pagati, sono minacciati, subiscono aggressioni fisiche e stupri: sono ridotti in schiavitù.

Secondo il rapporto il cuore del problema sono i grandi commercianti: comprano a prezzi irrisori la frutta dai piccoli agricoltori che non hanno alcun potere contrattuale e la rivendono a supermercati e multinazionali.

Quanti consumatori sarebbero allora disposti a comprare un prodotto frutto dello sfruttamento del lavoro? Probabilmente pochi, visto che da un sondaggio del Ministero per le Politiche Agricole emerge che il 71% degli italiani sarebbero favorevoli ad un etichetta eticamente trasparente che certifichi il prodotto anche sotto il profilo etico, quindi. L’indagine svolta dalle tre associazioni ha coinvolto anche alcuni grandi marchi della distribuzione e della produzione, in particolare Coop, Coca Cola e Nestlé al fine di valutarne l’impegno nella lotta al lavoro nero e verso una maggiore trasparenza della filiera a cui si appoggiano. Coca Cola ha risposto fornendo di sua spontanea volontá la lista dei suoi fornitori italiani, Coop ha descritto i meccanismi messi in atto per contrastare le irregolaritá, mentre Nestlé non ha fornito nessuna informazione in nome della privacy.

“Con la nostra campagna”, specifica Lorenzo Misuraca, di “daSud”, “vogliamo fare in modo che per le aziende e la politica diventi piú conveniente avviare percorsi virtuosi piuttosto che chiudere gli occhi sulla schiavitú nelle campagne italiane”.

di C. S.