Cultura 30/06/2017

Il segreto linguaggio dell'olivo e la cultura dell'anima

Il segreto linguaggio dell'olivo e la cultura dell'anima

In un contesto di pensiero globale e simultaneo, dove niente ha diritto di cittadinanza se ‘non serve’, meglio se subito, le uniche tracce ‘utili’ del sentiero avventuroso dell’’arte di vivere’ a sopravvivere non possono mica essere quelle che rimandano costantemente alla sapienza, all’equilibrio interiore e alla felicità condivisa. L'olivo è la massima espressione, un archetipo, di vittoria e di pace, di forza e di saggezza. Recuperare questi valori, come fa Pandolea, significa recuperare il valore della vita umana


Si è letto, in quasi tutti gli articoli dedicati, che il brano della versione dal latino, oggetto della seconda prova per gli studenti del liceo classico dell’anno scolastico che sta per chiudersi, anche per i maturandi, è incentrato sul ‘valore’ della filosofia, sulla sua concretezza, e, possiamo già aggiungere, su molti altri aspetti della meditazione sapienziale. Il breve passo, tratto dalla raccolta delle Lettere morali a Lucilio, è parte della lettera XVI delle complessive 124 del corpus dell’epistolario che Seneca dedicò all’amico come documento e testamento drammatico della propria esistenza. Quella della traduzione dalle lingue classiche per l’esame di maturità, data l’attenzione che gode quasi sempre nel momento specifico, dopo le previsioni e l’attesa, può essere di volta in volta occasione puntuale di studio e valorizzazione delle scienze umane, non tanto per la scelta dell’autore o del testo in sé, quanto perché il nucleo tematico e l’ambito semantico suggeriscono ai più giovani e ad un ampio pubblico di adulti spunti di approfondimento su problematiche di vitale importanza-sic!, in questo caso, di matrice etica e normativa, oggi non solo di straordinaria attualità, ma, ci pare, di urgente necessità. L’invito viene da uno dei massimi esponenti, assieme a Cicerone, della prosa filosofica romana e ci guida anche all’indagine sul rapporto tra individuo e società umana di tutti i tempi; in un’altra epistola, per quel poco che ci è consentito citare in traduzione, si legge che “la nostra società è molto simile ad una volta di pietre che verrebbe giù se le pietre non si sostenessero a vicenda…”(ep.95,53). Poco sopra, il rimando al celebre passo di Terenzio: “Homo sum…”.

Oggi sono numerose le realtà associative ed istituzionali che si ispirano a questi fondamenti. Anche in quanto sensibili sostenitori di suggestivi principi di solidarietà etica e sociale, presenti in gran parte dell’opera senecana, riusciamo a recepire, a diffondere e a partecipare all’entusiasmo che animano le attività di associazioni culturali come Pandolea, che costantemente si impegnano, in dialogo con molte altre forze, per integrare la corretta educazione alimentare in una struttura umanistica, in un’organica visione di miglioramento, nella quale, come il testo in oggetto esprime, “philosophandum est”, è necessario servirsi della filosofia, per rivendicare il territorio della salute dell’anima e del corpo, al centro di un sapere e di un benessere unitari.

La missione e l’intraprendenza di Pandolea, in tal senso, possono essere considerate una risorsa filosofica, una dimensione ideale di appartenenza, una vera e propria ‘comunità di pratica e di apprendimento’, dinamica, costruttiva, pervasiva, orientata alla creazione di valore umano e di patrimonio culturale.

In Seneca il modello salutistico esistenziale è definito in linea totalizzante e la dimensione dell’interiorità emerge prepotentemente, perché da essa si può trarre il bene maggiore, e in questo si trovano d’accordo l’epicureo, lo stoico, il cinico, nonché, da molto prima, i massimi del pensiero orientale. L’interiorità come possesso, certo, e l’interiorità come rifugio, ma anche come laboratorio, di ascesi, incitamento, esortazione, strumento di parenesi e di apertura all’altro, di reciprocità, di corrispondenza.

Nel quotidiano e perseverante esercizio contemporaneo, soprattutto massmediatico, di inquadrare la ‘cura di sé’ in una visione e in un approccio globale, o come si suole ribadire ‘olistico’- proficui in tal senso sarebbero almeno un confronto e una lettura dal greco dei pensieri di Marco Aurelio- si può ben sperare che i ‘fecondi pascoli’ delle indagini psicosociologiche, e le indicazioni terapeutiche a seguire, possano rendere pieno merito al testamento culturale di uno fra i tanti scrittori dell’antichità, che torna ora a ricordarci la valenza ‘pratica’ e ‘social’ della filosofia, e a fornire infinito materiale. Peccato, certo, dover rispolverare qualche libro dei classici solo per la contingenza dell’esame di stato, non amatissimo dai più, ma, fosse anche solo per inciampo, il tentativo episodico di soffermarsi sulle complesse problematiche che da sempre mettono in crisi l’anima umana nella disperata ricerca dell’ ’arte del vivere’ è uno dei tanti modi possibili per rinnovare il pensiero dei filosofi antichi, per riscoprirlo così fertile di fronte ai nostri bisogni e alle nostre fragilità. Ma se il pensatore e l’uomo di corte, così distante, per irriducibile diversità antropologica, immerso nelle contraddizioni dell’età degli imperatori Caligola, Claudio e Nerone, dovesse convincerci ad approfondire la lettura, anche a voler fare una selezione chirurgica degli scritti, nel sospetto o nel desiderio che essa possa risultare di una qualche ‘utilità’, saremmo portati a cambiare la rotta del nostro breve viaggio per una meta troppo lontana, ma, forse, proprio questo sarebbe il suo massimo ‘servizio’, quello di aprirci ad un dialogo senza fine con la tradizione, con la nostra stessa identità letteraria e filosofica.

Arrivati a questo punto, che fatica! - e quale paradosso: nel nostro millennio, nello scenario ’liquido’ conclamato, come definito da Bauman, trascinati come siamo dalla deriva tecnocratica da una parte e da quella farmacocratica dall’altra, la virtù stoica e la senecana ‘cura di sé’ dovrebbero consistere in un assiduo impegno a migliorarsi per l’altro, o meglio, ad ‘essere per l’altro’, in un incontro fra etica dell’interiorità ed etica sociale.

Nulla di tecnico e tantomeno di analgesico, piuttosto, una vera e propria ricerca, una ricerca mirata, come hanno scritto in numerosi saggi gli specialisti, verso la ‘scienza del vivere e del morire’.

Allora i colpi della sorte? La provvidenza e le leggi di Dio? Come regolarsi di fronte a questi e altri interrogativi del testo, una volta tradotto? Ecco, affinchè un passo di cultura classica attiri un minimo di attenzione, il rischio è di frequente quello di rinviarlo a ciò che ‘serve’, oppure che possa essere ritenuto interessante adottare questa chiave di lettura ‘servile’ anche e soprattutto ad uso degli studenti, e, come se non bastasse al detrimento dell’opera complessiva, si fatica a resistere alla tentazione di estrapolare un che di manualistico, di pratico, di conclusivo, di definitivo, di smart.

Questo è un ‘terreno’ su cui non si rischiano fraintendimenti: in un contesto di pensiero globale e simultaneo, dove niente ha diritto di cittadinanza se ‘non serve’, meglio se subito, le uniche tracce ‘utili’ del sentiero avventuroso dell’’arte di vivere’ a sopravvivere non possono mica essere quelle che rimandano costantemente alla sapienza, all’equilibrio interiore e alla felicità condivisa, a quel vero ‘munus’ che sta nella coincidenza tra pratica di vita e pratica di filosofia, riferimenti che si presentano poco prima o subito dopo il brano che ci ha dato l’avvio, ma quelle che ricordano, più vagamente, una sorta di slogan, il concetto che la filosofia può risultare di un qualche ‘valore’, magari persino commerciale. L’humus etico in cui la cura di se’ può essere praticata sotto la guida della ragione è invece il luogo della costruzione, dell’impegno e del dono, un terreno fertile di confine tra l’ascesi individuale e il sentimento relazionale; questi aspetti chiave nella ‘humanitas’ di ascendenza greca e poi latina, come il sentimento di integrale appartenenza alla società umana, provengono dalla filosofia, dalla perenne tensione al miglioramento, dalla vocazione di apprendere per insegnare, di educare nella formazione di sé, in una stretta simbiosi tra coesione interiore ed equilibrio sociale ed economico.

Cultura, un campo da dissodare, con impegno, tanto che è preferibile per molti evitarlo, come Seneca asserisce, lasciare incolto, senza cure, o rinnegarlo, negandone per esempio l’utilità, il frutto, si direbbe meglio oggi il profitto, la vera anima antieconomica della contemporaneità. Ma gli amici e i lettori di Teatro Naturale sanno che i termini humus, humanitas e humilitas hanno la stessa radice, perciò si trovano perfettamente a loro agio nei percorsi senecani che conducono e invitano alla coltivazione dell’anima, ad usare temperanza e perseveranza; nella riflessione del filosofo, il sapere delle arti, tèchnai in greco, in cui confluiscono il ‘saper fare e il poter fare’, diventa ‘pratica’ al servizio della costruzione di un modello etico. In questa direzione trova piena coerenza, ad esempio, la citazione che Seneca in un altro passo del carteggio dedica a Virgilio (Georgiche, 1, 215-216), a proposito della semina e del raccolto delle fave e del miglio: l’intento non è quello di accusare il poeta di totale negligenza della ‘techne’ agricola, ma al contrario quello di difenderlo da un’eventuale taccia di pedante erudizione e di arido tecnicismo. Opponendosi ad un’opinione corrente, nega che le Georgiche siano state composte principalmente per addestrare alla ‘res rustica’ i contadini e mette in primo piano il loro intento artistico. La loro validità etico-pedagogica resta dunque fuori discussione, come ben mostra il fatto che, in proporzione all’ampiezza, sono l’opera virgiliana più citata e valorizzata dal filosofo. Ciò che egli piuttosto contesta sono la loro specifica funzione di poema didascalico rivolto agli agricoltori e l’acribìa tecnica del loro autore, subordinata all’intenzione poetica. E’ legittimo dunque scorgere nell’epistolario 86, 15, l’indizio di una più precisa avversione di Seneca per il genere ‘della poesia didascalico-tecnica’. In realtà le ‘res’ che a Seneca stanno a cuore e lo entusiasmano non corrispondono al decoro formale dei carmina virgiliani ma alle loro profonde risonanze etiche, conformi ai precetti dello stoicismo. La vera grandezza del poeta apparirà solo a chi adotterà il metodo di lettura del filosofo morale.

Qualche suggestione di questo tipo offrono l’allusione alla semina di un passo delle Tusculane di Cicerone, in cui, come del resto in una satira di Orazio, si paragona la filosofia alla ‘cultura dell’anima’ in cui la semina e la fruttificazione sono concepite al pari del sistema adottato in agricoltura; per il medesimo tema, nelle lettere senecane, si possono vedere le epistole 39, 4 e 73, 6, di matrice platonica, con l’accurata descrizione delle tecniche utilizzate per trapiantare le piante, prassi agricole pienamente assimilabili al topos filosofico della ‘cultura animi’.

Nell’attività dell’agricoltore che trapianta gli alberi con il loro ceppo, raschiandone prima il bulbo fino a metterlo a nudo perché le radici possano ricrescere in ogni direzione, o utilizzando i rami più forti degli alberi ancora giovani, è infatti perfettamente comprensibile l’attività del saggio rivolta non solo a diffondere i semi della virtù, ma anche a prendersi cura di ciò che del giovane arbusto e della sua crescita saranno cosa giovevole, per sé e per gli altri. Per il paragone tra la crescita di un albero con il progresso dell’uomo si veda inoltre l’epistola 34, 1. E’ notevole, in particolare, la valenza di cui si carica l’insistita allusione alle tecniche utilizzate per trapiantare gli ulivi, alberi strettamente legati, nel mondo antico, sia alla vita sociale che a quella morale, e mitico-sacrale. Non è infatti privo di significato notare che sul versante economico-politico l’ulivo si costituiva, nel mondo romano, non solo come paradigma del peso economico della classe dirigente e dell’apparato politico-amministrativo dello stato (inoltre Cicerone, Res Publica, 3, 9-16), ma anche come simbolo dello sviluppo di una civiltà che richiedeva conoscenze botaniche e pratiche agricole strettamente connesse ad un’organizzazione socio-politica ed economica sempre più evoluta e complessa.

In questa direzione, molto importante ad oggi resta lo studio del Sallares del 1991 sui rapporti tra demografia e agricoltura, che analizza il rapporto tra produzione agricola e popolazione umana, con attenzione alla connessione, in antico, tra la diffusione di ulivi, viti e cereali e l’affermazione di un sistema agricolo più produttivo, in relazione allo sviluppo.

Il ricorso di Seneca a questo esempio è riconducibile a criteri di conoscenza e di spiegazione delle sue origini e del suo significato anche mitico-sacrale e su quello morale, come èmblema di vittoria e di pace, di forza e di saggezza (Plinio, Naturalis Historia, 16, 240). Solone, celebre legislatore ateniese del VI sec. a.C., annoverato tra i sapienti dell’antichità, diede ad Atene un codice di leggi che comminavano la pena di morte a chi avesse abbattuto gli olivi, e stabilivano con grande minuzia anche gli aspetti concreti delle pratiche agricole. Anche nella Costituzione degli Ateniesi di Aristotele si legge: “L’olio si raccoglie dagli ulivi sacri: l’arconte lo preleva dai proprietari dei terreni in cui questi alberi si trovano…un tempo la città appaltava la raccolta e chiunque scalzava o abbatteva un olivo sacro era giudicato dal consiglio dell'Areopago e, se riconosciuto colpevole, punito con la morte” (60, 2; sul tema anche Lisia, De olivo sacro, 11-19).

Una regola antichissima proibiva inoltre anche ai raccoglitori di olive di danneggiare in qualche modo l’albero strappandone o percuotendone con forza i rami durante la raccolta. Per i riferimenti sulla tecnologia agronoma olearia si vedano in particolare Catone, Agricoltura, 6, 10; Columella, 5, 8, 3; Varrone, De re rustica, 1, 24, 1; Plinio, op.cit., 15, 6; per l’elogio dell’olivo in Virgilio si rimanda alle Georgiche, 1, 18-19; 2, 1 ss. e 420-422; inoltre, altre testimonianze in Teofrasto, Hist. plant., 6, 2, 4; Omero, Odissea 7, 112 ss.; 13, 372).

Seneca ricorre in un’altra epistola al testo virgiliano delle Georgiche nel quale si mostra che regioni diverse producono frutti diversi, per dimostrare che il bene non può essere suddiviso fra tutti in parti uguali, poiché gli uomini costituiscono un ‘terreno morale’ più o meno incline alla saggezza. Tra i maestri delle arti e i maestri di vita, ammonisce spesso Seneca, secondo la dottrina stoica, soltanto l’arte del vivere, il cui fine è l’agire onestamente sotto la guida del ‘logos’, si carica di una valenza universale, che si identifica con la virtù e la saggezza che soltanto il filosofo, unico e vero maestro di vita, può insegnare. Altrove ci ricorda che “nessuna forma di sapere si apprende da un luogo”, né da un unico passo strappato all’organico, perché siamo noi il viaggio, il bagaglio con cui andare: la ricerca continua, gli esami non finiscono mai, i classici e gli ulivi so lì, longevi, saldi, ad assicurarci, se solo lo vogliamo, inesauribile “riserva del futuro”…

di Cristiano Berilli

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