L'arca olearia 09/05/2014

La via di un superintensivo italiano passa attraverso i portainnesti nanizzanti?

Siccome in altre specie frutticole i portinnesti nanizzanti hanno consentito di ridurre drasticamente le dimensione dell'albero e di concentrare le produzioni in volumi ridotti di chioma, viene immediatamente in mente che in olivo si potrebbe fare altrettanto. Ma è davvero possibile?


Con l'oliveto superintensivo si ottiene un notevole risparmio di manodopera in fase di raccolta, potendo raccogliere un ettaro in 2-3 ore con macchina “vendemmiatrice” che può raccogliere prima l'uva e poi le olive, con interessanti economie di scala. Per questo motivo il modello superintensivo
si è affermato in molte realtà su superfici interessanti, nonostante gli elevati costi di impianto e di gestione, più elevati che in oliveti tradizionali, che rendono ancora incerta la competitività economica del superintensivo, rispetto ad un razionale impianto tradizionale. La validità o meno del modello superintensivo, il confronto economico rispetto ad un intensivo e le possibilità di espansione del superintensivo nel nostro Paese, esulano dagli obiettivi di questo articolo, che invece tratta dell'eventuale ruolo dei portinnesti nel rendere adatte al superintensivo varietà altrimenti non idonee.
Infatti, un grosso limite di questo modello produttivo è che solo poche varietà vi si adattano. Al momento, Arbequina e Arbosana e Koroneiki sono le più utilizzate. Nuove cultivar spagnole e italiane sono in corso di valutazione, ma non ancora impiegate su larga scala. Altre cultivar, incluse la maggior parte di quelle italiane, non sembrano affatto adattarsi. Questo limita fortemente la possibilità di controllare la qualità dell’olio o di investire nella tipicità, sfruttando particolari combinazioni genotipo-territorio, che poi sono probabilmente le strategie vincenti per l’Italia, che non può competere solo sul basso costo di produzione. Poter impiegare cultivar locali (o comunque diverse dalle solite tre) in superintensivo, potrebbe conciliare l’abbassamento dei costi e la modernizzazione dell’olivicoltura con la tipicità e la diversificazione del prodotto.

Siccome in altre specie frutticole i portinnesti nanizzanti hanno consentito di ridurre drasticamente le dimensione dell'albero e di concentrare le produzioni in volumi ridotti di chioma, viene immediatamente in mente che in olivo si potrebbe fare altrettanto: nanizzando con un portinnesto la varietà troppo vigorosa, si dovrebbe renderla adatta al superintensivo. Ma è così semplice? Perché non ci si è riusciti prima? Quali caratteristiche devono avere le cultivar per essere adatte al superintensivo? Può il portinnesto conferire queste caratteristiche ad una cultivar che non le ha?

Precocità ed abbondanza di produzione sono caratteristiche considerate essenziali per il superintensivo. Inoltre si ritiene generalmente che Arbequina e Arbosana abbiamo una vigoria contenuta e che questo sia un fattore chiave per la loro idoneità agli impianti superintensivi. Il ridotto vigore di tali cultivar è associato alla capacità di produrre di più e più precocemente (Tous et al., 2006; Camposeo et al., 2008). Ma da cosa derivano queste caratteristiche? Quali sono i meccanismi che portano queste cultivar a un vigore ridotto e a una abbondante e precoce produzione? Il portinnesto può indurre abbondante e precoce produzione? Per capire se questo è possibile occorre comprendere a fondo i meccanismi fisiologici sui quali si fonda il successo di alcune varietà di olivo in superintensivo. Per fare questo riprendiamo degli argomenti già trattati in un articolo precedente (Rosati et al, 2007).

In frutticoltura, riducendo la taglia delle piante mediante portinnesti nanizzanti si ottiene un anticipo dell’entrata in produzione, mantenendo le capacità produttive del frutteto. Questo risultato, però, è possibile solo per le peculiari caratteristiche produttive di specie che producono frutti anche su rami deboli (dardi, lamburde, mazzetti di maggio, zampe di gallo, ecc.). Queste specie, quindi, fioriscono ed allegano in quantità addirittura superiore al necessario, da cui deriva spesso l’opportunità di diradare i frutti. Inoltre, non devono rinnovare molto la vegetazione per produrre regolarmente, per cui possono modificare la ripartizione della biomassa prodotta a favore della frutta.

In olivo si è tentato più volte lo stesso passaggio ma senza successo. Il motivo più probabile é che l’olivo, a differenza del pero o del melo, non ha rami fruttiferi molto deboli (dardi, lamburde, ecc.) e non produce su rami diversi da quelli di un anno, se non eccezionalmente. Dunque, per produrre ha bisogno di fare molta nuova vegetazione, in assenza della quale l’anno dopo non fruttifica, entrando così in alternanza produttiva.
Arbequina, Arbosana e Koroneiki, invece, sono caratterizzate da una grande capacità di fiorire ed allegare su rami poco vigorosi. Ecco quindi che in seguito ad un anno di carica, cui corrisponde uno scarso sviluppo vegetativo, si avranno comunque fiori e frutti abbondanti. Questi, toglieranno risorse allo sviluppo vegetativo, producendo di nuovo poca vegetazione l’anno successivo. E’ facile immaginare che un olivo sempre in carica crescerebbe poco ogni anno: ecco quindi spiegato lo scarso vigore apparente di queste cultivar. In realtà non sono né nane né poco vigorose, semplicemente investono più risorse in frutti e meno in rami e legno, come dimostrano alcuni dati.
Tanto Godini et al., (2006) che Tous et al., (2003) mostrano che nei primi anni di produzione le varietà Arbequina ed Arbosana sono invariabilmente le più produttive e quelle con la minore sezione del tronco. Moutier et al., (2004) mostrano che l'Arbequina produce molti più fiori e frutti a parità di rami di un anno.
Dunque, pur in assenza di dardi, lamburde, ecc., l’Arbequina riesce a fiorire ed allegare proporzionalmente di più, consentendo buone produzioni anche in seguito ad uno scarso sviluppo vegetativo, così come indotto da un anno di carica. Ecco che i nuovi rami a frutto brevi e deboli, che normalmente produrrebbero poco inducendo l’annata di scarica, si trasformano in pseudo-lamburde capaci di nuova produzione. Quindi si potrebbe dire che l’Arbequina è tendenzialmente sempre in carica, come un melo o un pesco, tant’è che oltre ad essere sempre la più produttiva (a parità di volume della chioma) è anche la meno alternante (Moutier, 2006). Se immaginassimo un Frantoio sempre in carica, questo crescerebbe poco ogni anno, come fa in realtà nell’anno di carica.

Ma non basta! In lavori più recenti abbiamo mostrato che Arbosana ed Arbequina (e poche altre cultivar locali italiane) ramificano di più (Rosati et al., 2012). Questo incrementa la fioritura e la fruttificazione, come dimostrato in altre specie (Bell, 1991), in quanto molti rami laterali riempiono lo spazio-chioma, ridotto in superintensivo, con più siti produttivi. In altre specie (Lauri, 2007, Lespinasse e Delort, 1986; Forshey et al., 1992) la ramificazione è stata studiata mettendone in evidenza l’importanza, mentre in olivo non è stata mai presa in esame. I nostri risultati indicano che anche in olivo la ramificazione è controllata dal genotipo e che le cultivar più adatte al superintensivo ramificano di più, concentrando così il numero dei rami produttivi nel ridotto volume della chioma ammesso in tale forma di allevamento.
Oltre a ramificare di più, Arbequina ed Arbosana presentano anche minori diametri del tronco, delle branche e dei rami (Rosati et al., 2012). Questo comporta un doppio risparmio della pianta in termini di legno necessario a sostenere una data produzione. Infatti, da una parte il minor diametro di tronco, branche e rami comporta meno legno a parità di strutture produttive. A questo si aggiunge una maggiore ramificazione, che porta a più branche a parità di tronco (già più sottile!) e più rami a parità di branche, con ulteriore risparmio in legno. Tutto questo comporta due enormi vantaggi. Il primo è che una ramificazione più intensa consente alla cultivar di infittire la vegetazione e ridurre lo sviluppo volumetrico della chioma a parità di rami prodotti, fattori indispensabili per il superintensivo, dove il volume della chioma deve essere contenuto per consentire la raccolta meccanizzata. Cultivar che ramificano meno, tendono a fare branche più lunghe ed “escono” rapidamente dal ristretto volume disponibile in superintensivo. Questo comporta la necessità di eliminare con la potatura porzioni notevoli di chioma, stimolando così la pianta a fare succhioni invece di rami produttivi. L’olivo si trasforma così in produttore di legno anziché di frutti, senza contare che branche di grandi diametri soffrono maggiori rotture con la scavallatrice. L’altro vantaggio deriva dal fatto che se la pianta risparmia in strutture di sostegno (produce meno legno) a parità di siti potenzialmente produttivi (nodi dei rami di un anno), questo implica che la pianta ha più riserve da spendere per la produzione. Dunque, Arbequina ed Arbosana, ramificando di più con diametri minori, quindi producono chiome compatte e spendono proporzionalmente meno risorse in legno. Che ne fanno delle risorse risparmiate? Producono più olive (proporzionalmente alle proprie dimensioni)! E infatti, nel nostro lavoro (Rosati et al., 2012) la produzione, relativa alla taglia della pianta (cioè l’efficienza produttiva), è risultata maggiore per Arbequina ed Arbosana, insieme a poche altre cultivar locali italiane. Non a caso queste cultivar si distinguevano quasi sempre, a fianco alle solite Arbequina ed Arbosana, per una intensa ramificazione, per diametri ridotti, oltre che per l’elevata allegagione.

Ma allora servono i portinnesti nanizzanti?
No! Per l’olivicoltura superintensiva probabilmente non serve ridurre la vigoria tramite portinnesti.
I portinnesti nanizzanti come il Leccino Dwarf (LD) o il Leccino Compact (LC), ottenuti per mutazione indotta con radiazioni, hanno mostrato di ridurre il vigore della pianta (Pannelli et al., 2000). Caruso et al., (2006), dimostrano che con il portinnesto LD questa riduzione di vigore passa attraverso un meccanismo di aumento della resistenza al trasporto dell’acqua (resistenza idraulica) nella radice. Questo modifica i potenziali idrici della pianta rallentandone la crescita e riducendone il rapporto chioma/radice, come precedentemente dimostrato per portinnesti nanizzanti su pesco (Basile et al., 2003). Se questo è il meccanismo, ne consegue che la pianta è costretta ad investire più risorse nella radice a parità di chioma, riducendo esponenzialmente la sua crescita e, ancor peggio, la frazione di biomassa spendibile per fruttificare. Se ne ottiene una pianta che cresce lentamente e quindi entra in produzione tardi, e poi continua a produrre e crescere poco, esattamente come fa LC quando non innestato (Rugini et al., 1996). Invece, quello che un portinnesto dovrebbe fare, in olivo, è conferire le pseudo-lamburde (cioè la capacità di fiorire ed allegare anche sui rami di scarso vigore prodotti durante l’annata di carica), conferire una ramificazione più abbondante e, possibilmente assottigliare tronco branche e rami per risparmiare risorse da dedicare alla fruttificazione. Non sappiamo se tutto questo il portinnesto lo può fare, ma è poco probabile, in quanto si tratta di troppe caratteristiche proprie del nesto e non del portinnesto. Diversa cosa è nanizzare un melo che, pur perdendo vigoria, fiorisce e fruttifica sempre in eccesso e quindi non ha problemi di insufficiente rinnovo vegetativo per una buona fruttificazione con volume ridotto di chioma.

Conclusioni
Le caratteristiche essenziali che le cultivar devono possedere per il superintensivo sembrano essere quelle di fiorire ed allegare ostinatamente anche su rami deboli che si formano durante un anno di carica e di ramificare molto con strutture sottili, in modo da riempire volumi di chioma ridotti con molti siti produttivi (rami di un anno) e leggeri (sottili) per poter dedicare più risorse alla fruttificazione. Chi intende proporre alternative alla trinità Arbequina, Arbosana e Koroneiki, dovrà cercare varietà tradizionali o nuove con queste caratteristiche (e questo in molti lo stiamo già facendo), oppure trovare portinnesti in grado di conferire tutte queste caratteristiche al nesto. In questo caso, buona fortuna!

Bibliografia

Basile B., Marsal J., DeJong T.M., 2003. Daily shoot extension growth of peach trees growing on rootstocks that reduce scion growth is related to daily dynamics of stem water potential. Tree Physiology, 23: 695-704.
Caruso T., Motisi A., Buffa R., Lo Gullo M. A., Ganino T., Secchi F., Salleo S., 2006. Meccanismi coinvolti nel controllo della crescita vegetativa dell’olivo attraverso l’impiego del portinnesto. Frutticoltura, 3: 51-55.
Godini A., Palasciano M., Ferrara G., Camposeo S., 2006. Prime osservazioni sul comportamento agronomico di cultivar di olivo allevate con il modello superintensivo. Frutticoltura, 3: 46-51.
Moutier N., 2006. Olive tree architecture: different levels of approach. Olea 25: 33-35.
Moutier N., Garcia G., Lauri P. E., 2004. Shoot architecture of the olive tree: effect of cultivar on the number and distribution of vegetative and reproductive organs on branches. Acta Hortic., 636: 689-694.
Pannelli G., Rosati S., Rugini E., 2000. The effect of clonal root-stocks on frost tolerance and on some agronomical behaviour in Moraiolo and S. Felice olive cultivar. Acta Hortic., 586: 247-250.
Rosati A., Pannelli G,. 2007. Rese al top, costi al minimo Ma l’impatto è da verificare. Olivo e olio, 7-8: 38-41.
Rosati A., Paoletti A., Caporali S., 2012. Segni distintivi: ramatura abbondante ma sottile. Olivo e Olio, 2: 44-48.
Rugini E., Pannelli G., Muganu M., Mannino P., 1996. Impiego della mutagenesi e selezione di mutanti somatici e poliploidi in olivo. Atti “III Giornate Scientifiche SOI”. Erice, 11-14 Marzo: 273-274.
Tous J., Romero A., Plana J., 2003. Plantaciones superintensivas en olivar. Comportamiento de 6 variedades. Agricoltura, 851: 346-350.
Tous J., Romero A., Hermoso J.F., 2006. High density planting systems, mechanisation and crop management in olive. Atti II Seminario Internazionale “Olivebiotech 2006”. Mazara del Vallo (TP), 5-10 novembre: 423-430.


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Commenti 4

adolfo rosati
adolfo rosati
20 maggio 2014 ore 13:33

Come detto nel testo, l'obiettivo dell'articolo esulava dal commentare l'opportunità o meno di fare superintensivo in Italia, così come di
paragonare la qualità dell'olio. Questi argomenti sono di fondamentale
importanza e sono trattati spesso e in molte sedi. Il discorso dei
portinnesti in olivo, invece, è poco discusso ed è stato scelto come
tema dell'articolo. Che l'olio toscano non debba essere sostituito da
quello di Arbequina è evidente: se mia l'idea era di studiare se il
portinnesto poteva rendere il Frantoio e il Moraiolo più adatti al superinetnsivo.
Ma vorrei rispondere all'esigenza del sig. Peruzzi di trovare
soluzioni alla perdita di competitività degli oliveti tradizionali e
al conseguente abbandono. Una strada è di valorizzare l'olio, non solo
per le sue caratteristiche intrinseche (che come dice il lettore
possono essere altrettanto proprie di un olio prodotto in
superintensivo), ma proprio valorizzando la sua funzione di
mantenimento del territorio. Non è facile, ma ci sono consumatori che
pagano volentieri qualche euro in più se qualcuno li convince che così
facendo fanno una buona azione, aiutando l'ambiente e l'agricoltore,
mantenendo così tradizione e territorio. Certo è difficile,
specialmente su piccolissima scala, ma bisogna raggiungere questa
nicchia di consumatori o non c'è alternativa per gli oliveti più
difficili. Unire ad esempio la visita dei luoghi alla vendita dell'olio di quegli stessi luoghi è una delle migliori strade.
Un'altra soluzione è di vedere l'oliveto come un agroecosistema dove
si può produrre contemporaneamente più prodotti, non solo olio, ma
anche pascolo (quindi carni, formaggi, uova, ecc.) e/o altre colture
adatte all'abbinamento con l'olivo. Così si può produrre più cose, più
reddito e si può risparmiare facendo economica di scala sui costi,
trasformando alcuni dei problemi (costi) in opportunità (redditi). Su
questo, prossimamente, proporrò un articolo.
Adolfo Rosati

marco peruzzi
marco peruzzi
11 maggio 2014 ore 15:32

Sig.Mari condivido con lei che l'olivicoltura tradizionale e' messa male ma l'abbandono di tale pratica potrebbe essere peggiore,dietro a questo esiste sempre un mantenimento del nostro territorio,una salvaguardia delle nostre colline,si soffermi a guardare dove il bosco sta incorporando le olivete e vedra' al suo interno frane,cedimenti e altro che al momento possono sembrare niente,ma sono sicuro che con il tempo faranno cambiare aspetto al nostro paesaggio,senza azzardare ipotesi di qualche disastro come sta avvenendo in diverse parti.Ecco il perche' della mia difesa a favore dell'olivo cosi' come siamo abituati a vederlo sui terrazzamenti dei nostri paesaggi.Capisco anche che dove non c'e' reddito,c,e' abbandono e quindi va benissimo l'intensivo dove si puo' fare,e dove non e' possibile che si fa? Vediamo di trovare una soluzione per far convivere le due pratiche senza metterle l'una contro l'altra e sicuramente contribuiranno al futuro dei nostri oliveti

Marino Mari
Marino Mari
11 maggio 2014 ore 11:13

La raccolta in continuo con scavallatrice si può fare anche con Frantoio e Moraiolo, purchè opportunamente dimensionati e allineati. L’unico ostacolo tecnico è la pendenza laterale, che se eccessiva porterebbe al ribaltamento della macchina.
Viceversa è impossibile utilizzare con il Moraiolo lo scotitore: a novembre metà delle drupe resta sulla pianta.
Passiamo alla qualità. L’olio toscano tipico è un metà e metà di Moraiolo e Frantoio: può essere sostituito dall’Arbequina? E poi, come sta l’Arbequina a polifenoli, ossia quanto regge questo olio nel tempo?
Riguardo alla produttività, osservo che il Moraiolo ha una resa superiore almeno del 30% rispetto all’Arbequina (17% contro 13%).
Fatta questa premessa, è chiaro che ridurre Frantoio e Moraiolo a non più di 2 metri e mezzo di altezza, anche se rinfittiti fino a 2 metri-2 metri e mezzo lungo il filare, comporta un calo produttivo rispetto alle tradizionali 250 piante l’ettaro mantenute a grandi altezze. Ma l’orientamento della moderna olivicoltura non è proprio questo, di ridurre l’altezza per poter raccogliere, e soprattutto potare, senza l’uso di scale?
La soluzione peggiore è continuare a discutere senza fare niente: l’olivicoltura tradizionale non ha futuro.
Marino Mari

marco peruzzi
marco peruzzi
10 maggio 2014 ore 22:29

Gentile Adolfo,vorrei chiederti un parere su questo superintensivo di cui sono terrorizzato e ti spiego il perche':abito alle pendici del montalbano dove olivicoltura vuol dire terrazzamento e quindi impossibilitati a meccanizzare.I costi superano il prezzo finale del prodotto venduto e la gente abbandona.Stiamo cercando di ridurre i costi,organizziamo corsi di potatura da terra,ci stiamo orientando su sistemi Bio ecc.ecc. Adesso credo che un altro colpo in negativo lo debba dare questo superintesivo. Perche?....ci sono zone della Toscana dove questo sistema e' possibile realizzarlo e allora che differenza puo' esserci anche questo e' IGP e'TOSCANO puo' essere BIO e viene a costare molto meno.E noi con cosa contrasteremo questo? Unica speranza che le analisi chimiche accertino una sostanziale differenza qualitativa, ma nutro molti dubbi.Caro Adolfo aspetto qualche idea. Ciao Marco