L'arca olearia 31/03/2012

Idee in campo per risollevare l'olivicoltura italiana

Idee in campo per risollevare l'olivicoltura italiana

Il mondo della ricerca olivicola e olearia italiana raccoglie la sfida e lancia, attraverso Teatro Naturale, progetti e suggerimenti su come innovare l'olivicoltura italiana. Gli interventi di GianFrancesco Montedoro, Cristos Xiloyannis, Angelo Godini, Tullia Gallina Toschi e Benedetto Ruperti


L'appello lanciato in occasione di Olio Capitale ha colpito nel segno e ha collezionato adesioni importanti e trasversali al mondo oleario, fino ai vertici di Bruxelles. Le principali organizzazioni dei produttori hanno avvertito la problematica e compreso la necessità di non lasciar morire la ricerca olearia italiana.

Si può fare. I fondi per l'innovazione e la sperimentazione si possono trovare. Ma per fare cosa? Per quali obiettivi e quali risultati attesi?

Ce lo siamo chiesti e lo abbiamo chiesto a illustri esponenti del mondo accademico italiano che da anni si dedicano con affetto e passione al settore oleario.

Tre semplici e apparentemente banali domande:

se venissero ripristinati i fondi alla ricerca oleicola italiana, quale progetto, avente ricaduta operativa e applicativa per il settore produttivo, potrebbe e vorrebbe realizzare?

Quali obiettivi si prefiggerebbe?

In quanto tempo potrebbe, prevedibilmente, raggiungere gli obiettivi prefissati?

 

GianFrancesco Montedoro, Presidente dell'Accademia dell'Olivo e dell'Olio

Due sono gli obbiettivi ineludibili del settore: approfondire alcuni aspetti molecolari nell’ambito della composizione chimica degli oli correlati ad alcuni fenomeni fisiologici e fisiopatologici umani in parte accertati “in vitro”; ridurre i costi produttivi senza venir meno alle potenzialità qualitative della produzione nazionale. Occorre realizzare come in passato (progetti finalizzati CNR) dei gruppi di lavoro interdisciplinari con comprovate competenze scientifiche a cui affidare il raggiungimento di tali obbiettivi. Per quanto riguarda il primo obbiettivo,le esperienze gia maturate sia in ordine alla organizzazione ancora in essere sia in termini professionali costituite da unità operative nazionali e internazionali potrebbero raggiungere gli obbiettivi in non più di tre anni. Maggior tempo richiede la ricerca sui costi produttivi. Tali interventi, infatti sono condizionati dalle numerose varietà coltivate, dagli ambiti territoriali notevolmente differenti,dalla necessità che all’attività multidisciplinare partecipino i genetisti i cui protocolli richiedono appunto tempi più lunghi.

Cristos Xiloyannis, Università della Basilicata

Le tematiche sulle quali il nostro gruppo vorrebbe investire sono: gestione sostenibile del suolo con l’obiettivo di migliorare la fertilità chimica e microbiologica del terreno, aumentare la produzione mantenendo elevata la qualità (i terreni del Meridione sono desertici dal punto di vista microbiologici->1% di sostanza organica , certificazione del Carbon Foot Print); gestione sostenibile per migliorare le caratteristiche idrologiche del terreno e l’accumulo dell’acqua delle piogge (controllo dell’erosione, dell’inquinamento delle acque superficiali, aumento della produzione in particolare nelle aziende che non dispongono acque per l’irrigazione); utilizzo delle acque reflue urbane per la fertirrigazione con l’obiettivo di migliorare la produttività mantenendo elevata la qualità con risvolti positivi anche dal punto di vista ambientale, sociale ed economico; tecniche per migliorare l’efficienza idrica e l’impronta dell’acqua; utilizzo delle micorrize per migliorare la tolleranza ad alcuni stress biotici ed abiotici. Il gruppo dal 2000 che conduce prove relative alla gestione sostenibile (utilizzo compost, inerbimento, riutilizzo scarti, acque reflue urbane, concimazione “guidata”…) presso un’azienda privata situata a Ferrandina (MT) ma che si vede costretto ad abbandonare tale campo (che è stato inserito in una lista a livello nazionale come esempio di gestione sostenibile) per mancanza di progetti. Sarebbe opportuno poter continuare le attività per altri 4-5 anni per  avere tutti i dati a confronto (Sostenibile-Convenzionale) relativi alla fertilità microbiologica, caratteristiche ideologiche, aspetti economici ambientali e sociali, carbon e water foot-print.

Angelo Godini, Università di Bari

Dopo circa 50 anni di studi e ricerche non note ai più, sono giunto nella determinazione che solo un decimo della superficie oleicola italiana  tradizionale continuerà a sopravvivere per produrre oli extravergini di "nicchia" e quindi da reddito. Nessuna speranza per il restante 90%. Tutte le prove in atto (alleggerimento costi di potatura e raccolta, ritorno a vecchie forme d'allevamento, come il vaso policonico rimasto nel dimenticatoio per oltre ottant'anni, raccolta con vibratori ad ombrello rovesciato, ecc.) sono per me tutti palliativi che non risolvono il problema alla radice.

Il mio pensiero (vero o sbagliato che sia) è che il futuro della olivicoltura riposa sull'adozione del modello superintensivo, con raccolta in continuo (come oggi avviene su grandi superfici vitivinicole italiana e non solo). Certo, per soddisfare l'ansia di nazionalismo (provincialismo, campanilismo) ribadisco quanto già scritto è cioé l'importanza che l'Europa, l'Italia oppure le Regioni italiane finanzino  programmi di ricerca per il migiloramento genetico varietale per ottenere nuove varietà che abbiamo, ad esempio,  il portamento contenuto di Arbequina, Arbosana e Koroneiki, e che producano oli con caretteristiche più vicine a quelle della tradizione italiana (Moraiolo, Leccino, Taggiasca, Bianchera, Maurino, Coratina, Peranzana ecc.). Siffatto programma necessita però di tempi lunghi (almeno 10-15 anni) e forse in contrasto coi criteri di breve respiro dei programmi europei e regionali di oggi che (diciamocelo) servono più per pubblicare dati già abbondantemente acquisiti dalle Unità di ricerca piuttosto che cercarne e trovarne di nuovi.

Tullia Gallina Toschi, Università di Bologna

I progetti potrebbero essere tanti ma penso, in particolare, ad un progetto di valorizzazione. Il patrimonio nazionale di oli di qualità ha bisogno di poter contare di più sul proprio valore aggiunto sensoriale. Ha bisogno di poter essere più riconoscibile e divulgato. Penso ad una valorizzazione delle caratteristiche olfattive dell’olio, che, sappiamo è pienezza del “gusto”, quando l’olio viene assaggiato. Ci sono molti descrittori mancanti, non dobbiamo perdere l’occasione di cercarli o lasciare, come sta accadendo, che lo facciano altri Paesi, che di recente stanno investendo sull’extravergine. Potrebbe essere utile disporre di un vocabolario più ampio, di una terminologia corretta, riferita a specifici standard, provenienti dalla grandissima varietà esistente. Si tratterebbe di cercare descrittori olfattivi, caratterizzanti o “anomali positivi”, negli oli di qualità del nostro Paese. Ciascun termine potrebbe essere associato al riconoscimento sensoriale (armonizzazione e accordo tra panel nazionali) ed alla quantificazione dei componenti volatili e dei loro rapporti relativi, utilizzando vari metodi strumentali. Insomma si tratterebbe di definire le note olfattive di pregio in termini di significato, possibilità di percezione e composizione chimica. L'obiettivo sarebbe dare valore agli oli di qualità, trasferire e rendere aperte e fruibili le conoscenze accademiche. Dovrebbe essere almeno un progetto biennale , potrebbe essere sviluppato, come si dice in gergo progettuale, bottom-up, dal basso. Raccogliendo, per esempio, informazioni e campioni dai concorsi. E i risultati potrebbero essere divulgati durante gli avanzamenti, non soltanto alla fine.

Benedetto Ruperti, Università di Padova

Le relazioni tra maturazione delle olive e profilo sensoriale degli oli sono sicuramente un aspetto importante, soprattutto negli areali veneti, che studierei in modo sistematico per fornire agli agricoltori strumenti per individuare l’epoca di raccolta ottimale in funzione del raggiungimento del migliore risultato. Si potrebbero così ottenere degli strumenti, non distruttivi e di facile impiego da parte degli agricoltori, che consentano di valutare lo stadio di maturazione delle olive con il fine di consentire un maggiore controllo del risultato. Un minimo di tre stagioni fino ad massimo di cinque mi sembra sia un periodo di tempo adeguato per avere dei risultati solidi e per valutarne l’applicabilità nella pratica.

di Alberto Grimelli

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