Editoriali 02/12/2016

L'autogol dell'olivicoltura italiana

Le confessioni di un vivaisto non pentito, ma anzi orgoglioso, di andare controcorrente. L'Italia merita davvero di finire invasa da cultivar spagnole? Uno sfogo, una proposta, un progetto per il domani da parte di Pietro Barachini


Era il 1998 quando, per la prima, volta entrai a lavorare in azienda come operaio comune.

A quel tempo il direttore era mio zio e già all’epoca molti operatori del settore vivaistico erano preoccupati e scettici per quanto riguarda quello che allora sembrava potesse essere "la rivoluzione". Si parlava già da anni di questi famosi impianti a monocono. Da allora di tempo ne è passato ma le posizioni sono rimaste le stesse e la Spagna negli ultimi anni ha investito in sperimentazione e ricerca quello che neanche tutta l'Europa ha mai speso. Cosi sono sorti vivai che producono in un anno quello che normalmente in Toscana viene prodotto in 20 anni.

La differenza sostanziale tra noi e il paese iberico è che in Spagna sono state create in laboratorio delle cultivar che possono facilmente adattarsi al sistema superintensivo, escludendo però tutto quello che riguarda non solo la selezione naturale, ma anche il contenuto nutraceutico che avrà l’olio extravergine che verrà prodotto con quelle varietà. In sostanza, se potessimo fare un paragone, tutto quello che è stato fatto per il grano con gli OGM, viene ora fatto con l'olivo. Quindi sono partite le sperimentazioni anche in Italia ed abbiamo piantato, provato e riprovato, per arrivare alla semplice conclusione che questo sistema non è la strada da percorrere per risollevare l'olivicoltura in Italia, bensì è la via più semplice per distruggere quella biodiversità unica al mondo composta di ben 538 cultivar ufficiali .

Ogni giorno mi sento in dovere di spiegare, ad almeno un cliente che me ne fa richiesta, quello che non accadrà mai. E soprattutto che butterà soldi e tempo. Questo contro i miei interessi, perché in un primo momento la vendita di impianti superintensivi porterebbe un incremento sostanziale al mio bilancio aziendale, cosa che stanno sperimentando molti miei colleghi che stanno cavalcando l'onda della domanda.

Finché dura la richiesta per questi impianti a loro andrà bene, ma dopo, quando i coltivatori si renderanno conto di aver sbagliato investimento, si troveranno ad affrontare un bel problema…

Così ho preso la mia decisione e da quattro anni sto andando “contro tendenza”, sconsigliando vivamente questo genere di impianti e puntando su impianti intensivi , recupero delle cultivar autoctone e sulla valorizzazione del prodotto.

Attualmente in Italia esistono circa 538 cultivar di olivo dislocate nelle varie regioni con le loro differenti tipicità, con i loro gusti e aromi unici. Per adesso però purtroppo ne stiamo utilizzando solo 50. Ogni anno cerco di recuperarne una e non è una cosa facile perché per ogni cultivar è necessario un processo lungo e costoso. Nonostante ciò, questo impegno mi sta dando tante soddisfazioni e tra le tante, 4 anni fa sono riuscito a recuperare la cultivar Leccio del Corno, che attualmente è la più richiesta in Italia, grazie alle qualità dell'extra vergine che se ne ricava e della pianta stessa.

Sono convinto che in qualche campo da collezione e sparse in antichi uliveti vi siano cultivar di cui non conosciamo ancora nulla o che sono state messe da parte nei decenni scorsi in favore di altre. Se non interveniamo per il loro recupero rischiamo l'estinzione di molte di queste varietà. Scoprirle e riscoprirle significa invece incrementare l’assortimento varietale in favore di un allargamento dell’offerta per consumatori nazionali e internazionali sempre più attenti e consapevoli, e quindi espandere una proposta qualitativa unica nella sua ricchezza.

A tutte le persone che oggi promettono la "rivoluzione" come accadeva 10 fa, faccio una domanda: è davvero necessario per un Paese come l'Italia, con le sue morfologie complesse e uniche, i suoi microclimi e superfici molteplici ed eterogenei, le sue centinaia di varietà che danno extravergini diversi ed eccellenti, è davvero necessario - dicevo - per l’Italia produrre un olio con le stesse varietà prodotte nella maggior parte dei Paesi del mondo e quindi identico, con le stesse caratteristiche organolettiche e sensoriali, ma che costi 3 volte di più rispetto a quello che offrono gli altri paesi?

di Pietro Barachini

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Commenti 7

Antonio Caputo
Antonio Caputo
09 febbraio 2017 ore 17:15

Pienamente in accordo con la sua posizione, sono anni che vado predicando la biodiversità. Lo farò fino allo sfinimento. Avanti con le cultivar locali e di sicuro pregio. L'olio prodotto è come il pane , in ogni regione , in ogni provincia, in ogni località , racchiude il sapore, il profumo, ed il colore caratteristico di quel singolo posto, unico ed irripetibile. Personalmente in collaborazione con i vivaisti locali è da tempo che abbiamo salvato dall'oblio tante varietà a rischio di estinzione . E poi anche il resto si fa , cioè oli dal sapore antico e moderno nello stesso istante.

Filippo Camerini
Filippo Camerini
22 dicembre 2016 ore 23:21

Signor Pietro Barachini, lei ha fatto una grande servigio alla comunità, non tanto nel riscoprire una cultivar affatto dimenticata, quanto nel convincere tanti olivicoltori a conservare questo immenso patrimonio. Però dobiamo tenere presente che la tutela della biodiversità dovrebbe essere un obbiettivo sociale e non imprenditoriale. Forse i suoi clienti volevano semplicemente un reddito... Chissà

Angelo Frascarelli
Angelo Frascarelli
11 dicembre 2016 ore 16:02

I giovani in agricoltura mancano, perché non c'è reddito!
Il reddito in olivicoltura non c'è per le idee astratte sulla qualità, che non generano produzione e valore. In Italia e su questa rivista predominano i fautori della nostalgia e dell'arretratezza, che condannano al sottosviluppo.
Facendo oliveti innovativi, meccanizzati e altamente produttivi, anche con le varietà locali più adatte, si può ottenere un ottimo olio extravergine di oliva, che genera fatturato e reddito.

MARIO RIPA
MARIO RIPA
11 dicembre 2016 ore 13:05

E' una battaglia contro i mulini a vento. non sono le cultivar che mancano ma i giovani che vogliono coltivare ulivi.Nella nostra cooperativa su 400 soci solo una decina ha meno di QUARANTA anni.
dalle nostre parti si coltiva la Caninese. una piantan difficile e che vuole crescere, crescere. Ed a me ha cominciato a produrre al quinto anno. me le tengo cara, finchè potrò, per la qualità dell'olio che da.
Forza e coraggio.

Marina Gioacchini
Marina Gioacchini
04 dicembre 2016 ore 12:02

Grazie mille per il suo articolo veramente molto interessante.
Proprio l'estate scorsa, nel mio uliveto grazie ad un grande esperto di cultivar autoctone, abbiamo scoperto di avere alcune piante della varietà Leccio del Corno da lei citata. Le piante in questione danno un frutto e un olio eccezionale.

Francesco Donadini
Francesco Donadini
03 dicembre 2016 ore 12:26

mi permetto un commento: lo scopo di un imprenditore è fare reddito per sè e per il suo territorio. La terra che ha non è sua e in mano alla sua capacità, sensibilità e lungimiranza. La Biodiversità fa fare più reddito! Questa è la vera scoperta del nuovo millennio! Lo standard offre e offrirà sempre marginalità decrescenti. E' solo il mercato della qualità, del bio, della diversità qualitativa e organolettica che consente e consentirà reddito alle piccole e medie realtà, come per le cantine e i produttori di vino. Si tratta solo di aprire gli occhi e di fare squadra nella promozione e distribuzione (punti dolenti e da rinnovare completamente).

Angelo Frascarelli
Angelo Frascarelli
03 dicembre 2016 ore 06:51

Leggo: "Sono partite le sperimentazioni anche in Italia ed abbiamo piantato, provato e riprovato, per arrivare alla semplice conclusione che questo sistema non è la strada da percorrere per risollevare l'olivicoltura in Italia, bensì è la via più semplice per distruggere quella biodiversità unica al mondo composta di ben 538 cultivar ufficiali".
Pongo una domanda: lo scopo di un imprenditore è il reddito o la biodiversità?
Sarebbe utile che Pietro Barachini porti i risultati economici dei suoi impianti: sarebbe un contributo utile al futuro.