Editoriali 29/05/2015

Speranze per l'olio d'oliva italiano? Non è cosa semplice, occhialuto direttore


Ci sono voluti un po’ di mesi, ma alla fine la crisi ha costretto associazioni e governanti a dire cosa vogliono fare. Con lentezza e la solita ritualità, ha osservato Alberto Grimelli.

Per ora il solo risultato è un foglio bianco su cui riscrivere il Piano Olivicolo Nazionale: i soldi sono veramente pochi e dalle stanze del Ministero dell’Agricoltura si invoca l’intervento salvifico delle Regioni. L’esperienza suggerisce prudenza: potrebbe essere l’ennesimo Piano Olivicolo che rimane sulla carta. C’è poi la novità di un solo documento delle associazioni imprenditoriali, dopo tanto tempo e tante polemiche, in cui la necessità di raggiungere un compromesso ha portato a privilegiare il fumo piuttosto che l’arrosto. A Grimelli è sembrata una svolta, ma poi avverte che potrebbe rimanere un caso isolato, buono soltanto per qualche altra riunione del tavolo olivicolo in via XX Settembre.

C’è già qualcuno che prepara i fuochi d’artificio per festeggiare le 350/400 mila tonnellate di produzione olearia della prossima campagna e per un extra vergine italiano con un prezzo ragionevole. Ma chi si ostina a lavorare le olive da olio, come fanno i frantoiani, deve guardare ai prossimi mesi con realismo. Se l’abbondante fioritura darà i suoi frutti c’è il rischio che da ottobre prossimo torni ad innescarsi la spirale al ribasso e le quotazioni si riportino ai valori di inizio 2014.

Tutto come prima, come se l'annus horribilis non ci fosse mai stato.

La produzione olearia nazionale è a un bivio, sentenzia l’occhialuto direttore di Teatro Naturale che pensando a Lapalisse afferma: “può andare bene se si imbocca la strada giusta o può andare male se si torna a percorrere vecchie strade”. Ancora una volta la responsabilità è sulle spalle della politica (e non c’è da stare tranquilli): tocca al Ministro dell’Agricoltura (che fino ad oggi è sembrato più preoccupato di proteggere i produttori di latte che occuparsi della crisi olearia) e a quello dello Sviluppo Economico (che prepara decreti sulle sanse che sembrano dettati dall’Assitol), tocca al Parlamento (che si occupa e preoccupa di proporre nuovi stanziamenti ma privi di una strategia per la maggiore produzione) e alle Regioni (che come al solito preferiscono distribuire denari piuttosto che mirare a conseguire obbiettivi). Alle imprese (quelle che l’olio lo producono) il compito di fare un buon prodotto, ma soprattutto tocca ai cittadini/consumatori fare scelte consapevoli.

Come si può vedere non è una cosa semplice.

In questo quadro non crediamo che possa ritenersi una considerazione malevola affermare che, se in generale i produttori di olio e quelli di olive non se la passano bene, anche gli industriali dell’olio confezionato stanno attraversando, per molte e diverse cause, alcune delle quali a loro stessi addebitabili, una situazione di crisi che va al di là del difficile contesto e tocca invece la struttura stessa del settore. Avendo a cuore i posti di lavoro è giusto augurarsi che anche questa industria possa presto riprendere quota, facendo tesoro degli errori commessi, primo fra tutti quella guerra dei prezzi ai danni della qualità che, come un boomerang, si è ripercossa negativamente su chi l’ha praticata. È un fatto che aggiunge un ulteriore motivo per avviare una profonda rivisitazione dei modelli di produzione, dell’import/export e del commercio dell'olio d’oliva nel nostro Paese che, se non andiamo errati, è il secondo nel mondo in questo settore. La diffusione dell'uso dell'olio d'oliva in aree territoriali sempre più vaste, dall'Asia alle Americhe, mentre si affacciano, fra i produttori del futuro, l'Australia ed alcuni paesi sudamericani oltre a quelli africani del bacino del Mediterraneo che stanno programmando un balzo in avanti della loro produzione, non sono certamente fatti rassicuranti per gli imbottigliatori italiani. Per non parlare dei cinesi che, dopo essersi comprati Sagra per rifornire i loro 14.000 supermercati, scenderanno in campo con i loro renminbi (la moneta cinese rdr) per “comprarsi” tutto il mercato. La più probabile reazione dell’industria olearia italiana alle difficoltà di una nuova concorrenza sarà quella di “occupare” gli scaffali, di allargare la quota del mercato interno, magari erodendo lo spazio che l'olio prodotto dai frantoi artigiani si è conquistato, facendo, ancora una volta, leva sul prezzo e abbassando l'asticella della qualità.

Questo tentativo può avere una sola risposta: alzare quella asticella in modo chiaro e direttamente percepibile dal consumatore, ormai abituato a leggere e comprendere ciò che è scritto in etichetta.

Il consumatore ha il diritto di sapere quando acquista il cibo per la sua alimentazione, in particolare quando sceglie sullo scaffale una bottiglia d’olio, se esso è, o meno, frutto della lavorazione di olive italiane ad opera di un frantoiano che agisce in base ad un preciso codice produttivo e garantisce la correttezza di tutte le fasi, dalla molitura alla commercializzazione: la risposta affermativa sarà la riprova migliore che il prezzo richiesto ha una sua motivazione nella qualità garantita del prodotto. Qualità, quindi, come sicurezza!

Ma quel prezzo vuol dire anche che si può ancora coltivare l’olivo e ottenere un reddito dignitoso dalla commercializzazione delle olive invertendo la tendenza all’abbandono dell’olivicoltura ed anzi incentivandola con un Piano Olivicolo che, considerando l’olivo una risorsa economico/occupazionale per il nostro Paese, punti decisamente sul finanziamento di nuovi e vasti impianti olivicoli.

Riteniamo, a questo punto, che - ed è il fulcro dei nostri libri recentemente pubblicati e dedicati a “Il valore dell’olio” - sia arrivato il momento di assumerci tutti le nostre responsabilità. E’ un invito a ritrovarsi in una “assemblea costituente” di tutte le organizzazioni imprenditoriali e associazioni professionali, dagli artigiani agli olivicoltori, di tutti coloro che nel nostro Paese producono olio o coltivano oliveti, per costruire un'alleanza per l'olio italiano in cui ciascuna organizzazione, conservando la sua identità e la sua specificità, si impegni per un programma di azione comune che consenta, anche attraverso modifiche alla normativa vigente, di dare vita ad un “doppio mercato”, quello dell'olio artigianale italiano e quello delle miscele di oli di diversa provenienza territoriale confezionate dall’industria. E’ l’unico modo che vediamo per far fronte ad una minaccia di strangolamento (vedi il recente caso della destinazione delle sanse a biomassa) dei frantoi artigiani e dei produttori olivicoli più reale di quanto una valutazione superficiale può indurre a credere.
Le associazioni dei consumatori, come CODICI, che in questi giorni hanno celebrato il loro congresso e che hanno trovato buone ragioni per mettersi in rete inaugurando una svolta che le porta dalla difesa dei diritti dei consumatori ad una politica dei consumatori, possono giocare un ruolo decisivo.

Può giocare un ruolo determinante anche la GDO a patto che rinunci ad offrire gadget in forma d’olio (in questi giorni brillano sugli scaffali di Carrefour le solite bottiglie targate Farchioni e Arioli a 3,49 euro al litro). Il futuro ce lo racconta la Coop nel suo padiglione all’Expo dove non c’è posto per la biodiversità e per un cliente che vuole scegliere e l’unica chance è mangiare una “selezione della migliore gastronomia” scelta, confezionata e servita a tavola dal grande fratello. Dietro l'angolo si possono già intravedere grandi campagne pubblicitarie per convincere i consumatori che l'olio d’oliva migliore è quello aromatizzato alla vaniglia o che il cibo più buono è quello che con l’etichetta Coop, con i colori di una rosa rossa.

E’ necessario guardare oltre il proprio naso, oltre il prossimo futuro che ci stanno disegnando, per difendere il lavoro delle imprese olearie artigiane e l’olio Italiano. E’ un impegno a cui dovrebbe assolvere la prossima assemblea nazionale dell’AIFO perchè i frantoiani ancora ragionano con la propria testa e non usano l’I-phone per twittare in 140 caratteri, come è diventato d’uso nella politica di immagine.

di Mario Pacelli, Giampaolo Sodano

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Commenti 1

Francesco Donadini
Francesco Donadini
31 maggio 2015 ore 08:48

Auguro proprio una "rifondazione" del prodotto olio extravergine di oliva Giustissimo, perchè il consumatore vuole poter sapere se quello che acquista è una vera spremuta o un prodotto rettificato e/o raffinato. Oggi questa verità è negata al consumatore. I nomi antiquati e robiant: "olio extravergine di oliva", "olio vergine di oliva", "olio di oliva, "olio di sansa", "olio lampante" creano solo disinformazione strumentale, volta a lasciare spazio a tutti i trucchi commerciali e a costringere il produttore vero e il frantoiano ad allontanarsi dalla qualità, perchè viene negato, senza chiarezza e trasparenza di linguaggio, il principio stesso della qualità. Ritengo che vada cambiato il nome creando dei nomi che siano capaci di dare il giusto valore ai prodotti. Un extravergine di oliva è un nutriente, un olio di oliva è un lubrificante! Un olio lampante è un prodotto dannoso. Mettiamo in moto una associazione vera di comunicatori come AIAP-BEDA (europea) per trovare il giusto nome e il giusto valore, prima che sia troppo tardi!