Editoriali 01/05/2015

L'aria della città rende liberi


"L’aria della città rende liberi". Così si pensava nell’antica Grecia e così diceva un proverbio tedesco dell’età medievale; così si è creduto fino al grande esodo rurale dell’età contemporanea. In un mondo prevalentemente rurale, i contadini che si trasferivano in città potevano liberarsi dai vincoli di subordinazione e dipendenza ai quali dovevano sottostare nelle campagne, caratterizzate in larghissima parte dal sistema gerarchico di tipo feudale. Si andava in città per evadere da un mondo duro e ingiusto, per cercare fortuna, per sperare in un destino migliore, spesso trovando in realtà altro disagio e solitudine. Ma così è stato, e così in parte avviene ancora oggi, se pensiamo alle moltitudini di uomini soli che nelle città cercano di sbarcare il lunario, magari raccattando le briciole di una società urbana consumistica e distratta.

Ma è ancora vero che l’aria della città rende liberi come si pensava nel mondo greco, in quello medievale e fino alle soglie della era industriale che si affermò a partire dall’800, prima in Inghilterra e poi altrove? Oggi che la città, in particolare la sua forma metropolitana, ha assunto la forma di un contenitore di vincoli e di un sistema di vita per molti aspetti oppressivo, il mondo rurale può aspirare a rappresentare la libertà. Il rapporto con la natura, il paesaggio come specchio della qualità della vita, la salute e la dignità del lavoro agricolo sono tutti elementi cruciali della vita in campagna che rimandano al valore della libertà così come si è venuto formando nel corso della storia.

Cos’è la libertà? Ci sono sempre due libertà: libertà positiva e libertà negativa, libertà degli antichi e libertà dei moderni, libertà dalle regole e libertà nelle regole. A lungo la libertà ha significato privilegi per qualcuno e sottomissione per molti, come nella concezione medievale delle cosiddette «libertà», cioè facoltà, possibilità di fare qualcosa o di godere di un diritto. Le odierne logiche neoliberiste, le tendenze oligarchiche e dirigiste in atto, gli attuali processi di smantellamento e/o di riduzione del ruolo dello Stato nella società, come sta avvenendo in modo particolarmente evidente in Italia, spingono i gruppi dirigenti, ma anche ampi settori dell’opinione pubblica, ad abbracciare l’idea di una libertà dalle regole che inevitabilmente conduce a forme di darwinismo sociale e a un aumento delle disuguaglianze. Invece tutti noi dovremmo essere per una libertà nelle regole.

Proprio per questo la visione di una libertà rurale, frutto di una combinazione tra valori naturali e valori antropici, ancorata a regole morali non scritte, può rappresentare oggi il terreno su cui ricostruire un legame corretto tra individui e società. «L’uomo è nato libero, ma ovunque è in catene», sosteneva Jean-Jaques Rousseau, il più democratico degli illuministi. In tale ottica la libertà veniva identificata con lo stato naturale dell'umanità, distrutto dalla civiltà oppressiva. Quello del ‘700 era un mondo ancora prevalentemente agricolo e le campagne apparivano quindi il teatro principale di questa sottrazione di libertà, il regno dei vincoli e della subordinazione. Il mondo industriale le ha sfruttate e marginalizzate, senza restituirgli la libertà. Nel ‘900 il forte incremento demografico, la potenza tecnologica e il dilagare dei modelli di vita urbani ha portato al dominio della città sulla compagna e infine alla loro separazione in termini di dialettica: la scena globale ha surclassato le relazioni locali tra questi due elementi fondamentali del territorio dell’umanità, la città e la campagna, appunto.

Ma ora che ci troviamo nel mondo postindustriale, immersi nella crisi strutturale di un modello capitalistico-globale urbanocentrico e consumistico, un ripensamento è necessario. Le campagne possono tornare ad essere l’ambito privilegiato per la ridefinizione e la sperimentazione di nuove forme economiche, sociali e perfino politiche. La vita in campagna può rappresentare il laboratorio di una nuova libertà, lo spazio dove si può tornare a respirare. Affinché ciò avvenga è necessario comprendere e alimentare quel fenomeno articolato e complesso che ormai va sotto il nome di «ritorno alla terra». Il panorama scientifico e pubblicistico è ormai popolato di libri, riviste, studi e ricerche su questo tema: da I nuovi contadini del sociologo rurale olandese Van Der Ploeg (Donzelli editore) a Il ritorno dei contadini di Vitoria Silvia Pérez (Jaca Book), dalla rivista "Scienze del Territorio", che ha dedicato ben due fascicoli alle pratiche di ritorno alla terra, fino al libro di Corrado Barberis, noto studioso del mondo rurale italiano, su La rivincita delle campagne (Donzelli). Questo per citare solo i più significativi. In tutti questi lavori il territorio rurale è visto come l’ambito privilegiato di una ritrovata dignità, che fa rima con libertà. Queste indagini mostrano come sia ormai iniziato, spesso tramite percorsi di neoagricoltura e di retroinnovazione, una sorta di controesodo dalle aree metropolitane verso gli spazi verdi e verso le aree dell’abbandono della collina, dell’entroterra, della montagna. In questo modo si vengono ritessendo le relazioni con i luoghi, rivitalizzando anche la vita delle piccole città, dei borghi, dei paesi e degli spazi agrosilvopastorali abbandonati. Proprio dai luoghi dell’abbandono, dallo scheletro del Paese, possono prendere forma nuovi modelli.
la storia delle campagne italiane nel secondo Novecento può essere sintetizzata in un lungo addio al mondo rurale, cioè un processo nel quale il modello industriale basato sulla crescita dei consumi e della produzione e il modello sociale centrato sul welfare urbano hanno preso il sopravvento. L’abbandono delle campagne – noto come esodo rurale – e il mutamento del paesaggio agrario sono le espressioni più eloquenti di questa grande trasformazione, contrassegnata sul piano del lavoro da una consistente riduzione del numero degli addetti e da una senilizzazione del settore, con una crescente marginalizzazione delle aree rurali, a partire da quelle montane e collinari. Contemporaneamente la letteratura, l’arte e il cinema cominciavano a commemorare, anche quando ne parlavano in positivo, il bel mondo perduto e la malinconia per qualcosa che se ne stava andando.

Il Novecento è un secolo cominciato con l’agricoltura come settore prevalente dell’economia e della società e si è chiuso con le campagne abbandonate, ripiegate su se stesse, trascurate o aggredite, molto spesso ferite e talvolta derise. Sembrava, appunto, un addio, un tramonto definitivo del mondo agricolo e della ruralità italiana. Invece negli ultimi decenni la fine del mito del progresso e della crescita illimitata, il peggioramento della qualità della vita nelle città più grandi e l’emergere della questione ambientale hanno spinto verso una rivalutazione del mondo rurale, prima di carattere culturale e poi anche a livello pratico con l’instaurarsi di processi di ritorno, legati alla multifunzionalità dell’agricoltura, alle produzioni tipiche, all’agriturismo, alla ricerca di nuovi stili di vita e alla ricostruzione del rapporto città-campagna. Si tratta di fenomeni quantitativamente ancora limitati, ma qualitativamente significativi. Riacquistano così una nuova centralità le aree interne o depresse, le economie contadine, il paesaggio agrario, le aziende di piccole e medie dimensioni ingiustamente marginalizzate dal modello di sviluppo contemporaneo. E si vengono affermando nuovi stili di vita, che coniugano salute, dignità e libertà. Non siamo ancora in presenza di un coerente modello alternativo, ma si possono intravedere in certe pratiche regionali e locali, e timidamente anche in qualche politica, le condizioni (e più ancora la necessità) per una nuova agricoltura in grado di ridare al territorio e alle popolazioni rurali un ruolo importante nella ricostruzione dei volari fondanti del mondo moderno, tra cui proprio quello della libertà dell’individuo nell’ambito di un modello economico e sociale finalmente sostenibile nel quale la terra torni ad essere centrale non tanto per il suo valore fondiario, quanto come fondamento della vita dell’umanità.

Gli insediamenti rurali, i territori locali, organizzati intorno a centri urbani di piccole e medie dimensioni, ancora capaci di relazioni conviviali al loro interno, sono oggi la frontiera utile per rispondere alla crisi del modello metropolitano, una alternativa strategica alle megacity e alle urbanizzazioni posturbane - come ha scritto l’urbanista Alberto Magnaghi -, una liberatoria "marcia identitaria" di riscoperta della profondità del territorio, delle sue culture e identità locali, agricole, artigiane, artistiche, produttive, dei suoi paesaggi urbani e rurali, di un rinato senso di libertà.

In questa prospettiva, allora, non sarebbe fuori luogo ribaltare l’antico motto e stabilire una nuova e creativa equazione tra campagna e libertà.

di Rossano Pazzagli

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Commenti 1

Francesco Donadini
Francesco Donadini
02 maggio 2015 ore 16:19

"la natura è maestra di vita", l'uomo moderno affascinato dalla sua onnipotenza consumistica ha trascurato questo semplice principio universalmente riconosciuto costruendo un progresso fatto di standardizzazione di tutto, compresa la libertà e coscienza personali. La natura è biodiversità, intelligenza, selezione, progresso. A differenza dell'uomo la natura non è contro, ma fa meglio le cose. La natura non entra in guerra, ha la forza del tempo e di coloro che sanno ascoltarla.