Editoriali 21/11/2014

Cosa può fare Matteo Renzi per l'olivicoltura italiana?


In tutti i Paesi, vecchi e nuovi produttori di olio dalle olive, gli oliveti sono diventati piantagioni da reddito, e la nuova olivicoltura mondiale, che arriva a 3.000.000 di tonnellate, si deve soprattutto alle nuove e moderne piantagioni, competitive, con produzioni di qualità crescente, che ormai stanno scalzando sui mercati le produzioni made in Italy.
Infatti l’Italia, con le sue produzioni decrescenti, non è più in grado di imporsi in nessun mercato: si è passati da oltre 800.000 tonnellate di olio nel 2004, quando c’erano i modelli F, a meno di 400.000 tonnellate nel 2013, dopo l’entrata in vigore del sistema SIAN.

Una dolorosa operazione verità: la produzione italiana rappresenta il 10 per cento della produzione mondiale.

Questa situazione è il risultato, come tutti sanno, di politiche sbagliate, ma anche di metodi di conduzione delle imprese agricole, approssimativi e mirati al massimo risparmio, fino a nessun intervento, riportando la coltivazione dell’olivo ad una coltura di sussistenza.

La campagna in corso ha messo drammaticamente in luce tutto questo: un forte attacco di mosca olearia, lasciato incontrollato per i mancati necessari trattamenti, ha certamente abbassato i limiti della produzione, per cui non sarà possibile nemmeno raggiungere le 300.000 tonnellate previste dall’ISMEA un mese fa, in un momento in cui il valore dell’olio stava risalendo verso limiti di convenienza economica e malgrado nel Mediterraneo si annunciassero produzioni da record.

Siamo difronte ad un vero e proprio declino del comparto.

Ciò determinerà, come accade da decenni, un ulteriore aumento delle importazioni che arriveranno al milione di tonnellate con un netto guadagno per quella industria del confezionamento a marchio italiano, ma di proprietà anglo-cinese. Infatti il consumo di olio di oliva in Italia è assestato intorno al milione di tonnellate, ma quest’anno la produzione nazionale di extravergine non arriverà nemmeno a 100.000 tonnellate.

Intanto nel mondo la produzione di olio dalle olive aumenta. Non solo nella tradizionale area del mediterraneo dove primeggia la produzione spagnola, cresce quella siriana e tunisina che insieme possono coprire 400.000 tonnellate, mentre la Grecia rivendica una sua specifica qualità, ma occhio al continente americano dove le produzioni cilene e argentine sommate a quelle della California fanno una significativa concorrenza sul mercato degli Stati Uniti, per non parlare dei nuovi impianti australiani.

Se non vogliamo dichiarare forfait occorre prendere atto che la struttura produttiva nazionale dell’olio dalle olive deve essere radicalmente cambiata, e presto. E c’è bisogno di un nuovo piano olivicolo che, partendo da una fotografia veritiera della situazione, individui gli interventi necessari e urgenti per soddisfare almeno il 50% del fabbisogno nazionale.

Alcuni studi rilevano che sono necessari 150.000/200.000 ettari di nuovi oliveti. A questo scopo i parlamentari che hanno presentato una mozione nelle scorse settimane sostengono che si debba attivare un sistema di strumenti incentivanti che ripercorra le procedure individuate con successo per il piano agrumi, facendo tesoro delle esperienze maturate al riguardo. (un sistema analogo a quello attuato ai sensi della legge 2 dicembre 1998, n. 423)

Una cosa è certa, o l’Italia cambia strada oppure siamo destinati ad un triste destino. Non c’è nulla del vecchio assetto che valga la pena di essere salvato: tutto l’armamentario di una antica cultura politica, che ha dato pessima prova di se, è da buttare. Dobbiamo farlo e in fretta. Dobbiamo darci regole nuove e nuove strategie. Persino la Chiesa di Roma mostra di averlo capito. Abbiamo bisogno di una nuova “visione”, di una cultura politica che non nasca dalla semplice negazione delle ideologie novecentesche, come quella “democratica” del secondo dopoguerra, o quella dello “sviluppo” frutto del consumismo, ma dalla necessità di garantire forme nuove di civile convivenza degli uomini.  E soprattutto di una nuova e giovane classe dirigente, nei partiti, nelle associazioni, nell’economia, capace di governare secondo una scala di valori diversa dal passato (e dal presente), avendo la consapevolezza che il mondo sta cambiando in modo radicale e che indietro non si torna: la ricchezza si è spostata da ovest verso est e la Cina è il nuovo baricentro (insieme agli Stati Uniti).  

Il vecchio sistema economico-industriale del made in Italy si sta sgretolando sotto i colpi della crisi anche perché era già “fradicio” quando mostrava i muscoli da quinta potenza mondiale, mentre la nostra manifattura cerca di sopravvivere sfornando vecchi prodotti a basso valore aggiunto in una logica spesso contraria ai diritti dei consumatori. Nello stesso tempo si sta dissolvendo il vecchio sistema della rappresentanza sociale fatta di partiti ideologici, sindacati e associazioni corporative. “Facciamocene una ragione” è stato il paravento di una pericolosa tolleranza dietro cui i governi Berlusconi di destra e i governi Prodi di sinistra hanno promesso, e non fatto, riforme che non volevano, garantendo così, a corporazioni e lobby, il mantenimento di uno status-quo funzionale soltanto ai loro privilegi.

Ora sul palcoscenico è salito Matteo Renzi: abbiamo applaudito per incoraggiarlo, con la speranza che il suo programma abbia successo. Le prime scene (a noi) sono piaciute, ma bisognerà vedere come va a finire: riforma della Costituzione e della legge elettorale, job act e riduzione delle tasse, stipendi pubblici più bassi e vecchi magistrati a casa. Sarà vero cambiamento? Torna alla mente un articolo di Angelo Panebianco sul Corriere di questa estate, con un titolo significativo: ”guardiamoci allo specchio”. Scriveva Panebianco: “una parte cospicua della società italiana è impegnata nella difesa a oltranza dello status quo. Il cambiamento, per quanto definito necessario da tutti gli osservatori, e dalla stessa classe politica di governo, deve fronteggiare una resistenza e una “opposizione di popolo”. E quindi si poneva la domanda: “perché mai la politica dovrebbe essere in grado di salvarci contro  la nostra volontà?” Ecco la risposta: “Perché se è vero che la resistenza al cambiamento è forte e diffusa, e i ricatti elettorali che subiscono i politici sono potenti, è anche vero che se l’economia non riparte, sarà a quegli stessi politici che verrà poi presentato il conto, saranno loro a fungere da capro espiatorio”.

Convinti di questo le maggiori corporazioni stanno a guardare, mentre dietro le scrivanie burocrati e gran commis riorganizzano le loro carriere distribuendo trappole nei corridoi dei ministeri.  Ma presto o tardi la storia si preoccuperà di suonare la sveglia, sarà il momento in cui si impone la svolta, scelte coraggiose non più rinviabili fatte da protagonisti esperti, nuovi e capaci.  Sarà il momento della verità in cui o il rottamatore di Firenze dimostrerà di fare su serio oppure verrà travolto dai fischi della platea. (Ma intanto si potrebbe sapere cosa sta facendo il ministro dell’agricoltura).

 

Giampaolo Sodano è direttore AIFO

di Giampaolo Sodano

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Commenti 4

Luca Paolo Virgilio
Luca Paolo Virgilio
23 novembre 2014 ore 23:34

Sottoscrivo il consiglio offerto da chi mi ha preceduto. Rincorrere gli altri paesi sulla via dell'esasperazione delle quantità prodotte e della ultra-meccanizzazione a scapito di ciò che ci rende davvero unici è una strada ancora più spianata verso il fallimento. Gli alberi secolari, le colline coltivate, un'agricoltura che rispetta le piante, sono punti di forza da far valere quando si confrontano gli oli.
Biologico farsa? Peccato che sempre più persone vogliano mangiare cibo più sano e più pulito, l'isteria dell'industria potrà poco per fermare questa tendenza. Che crescerà sempre di più, inevitabilmente. Ed è un bene per chi mangia, chi beve l'acqua del rubinetto, chi si affaccia alla finestra e respira quello che viene fuori dai campi di fronte.
Sull'articolo, beh, ci mancava solo un altro inutile pistolotto rottamatore che, tra una citazione dell'alto pensiero salottiero italiano e un attacco luogocomunista alla casta, riesce a infilare l'idolatria pro-renziana perfino in un campo di olivi.
Almeno loro, lasciamoli in pace.

Raffaele  Giannone
Raffaele Giannone
23 novembre 2014 ore 17:36

Egregio Marino...vuole un consiglio ??
Si trasferisca in Australia!!
La salvezza dell'olivicoltura italiana non è nel rincorrere il superintensivo o gli assatanati dell'ogm, ma nell'unicità dei nostri oliveti secolari.... se permette prima di tutto pugliesi..molisani..abruzzesi..calabri...
Quanto sarà triste e ridicolo quel giorno in cui noi italiani e mediterranei avremo scimmiottato inultimente gli altri, avendo perso per sempre la nosta invidiata identità.
RG

Marino Mari
Marino Mari
22 novembre 2014 ore 11:16

Renzi abita a Pontassieve e ha degli ulivi anche nel suo giardino. Quindi dovrebbe sapere benissimo qual è la situazione e cosa fare.
Innanzitutto basta con l’olivicoltore visto come custode di un museo. Il museo è in stato di abbandono. La Toscana è diventata un gigantesco allevamento a cielo aperto di 400mila ungulati che stanno distruggendo tutto (testuali parole dell’Assessore all’agricoltura Salvadori).
Basta con il rifiuto di ogni innovazione, a cominciare dall’ostracismo nei confronti degli ogm. Se in Italia la ricerca scientifica è vietata, anzi penalmente sanzionata, altri ci passeranno avanti, Spagna e Israele per esempio.
Basta coll’illusione che il gap tra la nuova olivicoltura ultrameccanizzata di Australia, Stati Uniti, Argentina ecc. e la nostra rimasta agli anni cinquanta possa essere colmato col fatto che l’olio toscano deve essere accettato come più caro perché è speciale.
Basta con i finanziamenti a pioggia, non finalizzati ad alcun progetto innovativo. Basta con la farsa dell’olivicoltura biologica, tragicamente senza difesa dalla mosca olearia, e che nessuno adotterebbe se non ci fosse il finanziamento.
Basta con gli accademici che raccontano che da noi non si può, che la Toscana non è l’Australia, che non dobbiamo sacrificare la nostra tipicità.
O si cambia o è la fine.
Marino Mari

Raffaele  Giannone
Raffaele Giannone
22 novembre 2014 ore 10:32

Egregio Giampaolo Sodano,
perdonerà la fretta con cui provo a dare alcuni ulteriori spunti di riflessione sul suo articolo, ma, ahimè, non ho nè il tempo, nè la preparazione che sicuramente sono alla base delle sue osservazioni sull'attuale situazione dell'olivicoltura italiana.
Innanzitutto la prego di uscire dal coro dei cosiddetti "gufi" che tanto stanno proliferando in quest'epoca così critica per il nostro paese.
Un pò di ottimismo, di fattiva inventiva e di coerente progettualità non guasterebbe!
Che l'Italia sia fatalmente diretta verso una "significativa" marginalità nel mercato mondiale dell'olio d'oliva ( e non solo in quello!) è nelle cose, nella realtà, direi nel normale rapporto fra dimensioni e dinamiche socio-economiche ormai globalizzate.
Ce ne faremo una ragione, ma a testa alta!
Ciò di cui invece si parla poco è che COMUNQUE la nostra produzione nazionale, anche se tornasse alle virtuali ( e non virtuose) quantità dell'epoca modello F, basterebbe a mala pena a coprire il consumo interno che, come noto viaggia sui 12 k pro capite, con buona pace delle centinaia di migliaia di tonnellate di olio spacciato per italiano e rifiliato ai cari amici stranieri....!
E se non vado oltre è solo per amor di patria...
Valorizziamo piuttosto le nostre produzioni di alta qualità, la nostra invidiatissima biodiversità, la nostra storia e paesaggio ineguagliabili e ...forse avremo salvato la nostra consapevolmete piccola, ma orgogliosamente eccellente produzione olearia.
Grazie per l'attenzione e buon lavoro.
Raffaele Giannone, olivicoltore molisano