Articoli 04/09/2004

DANIELA MARCHESCHI: "C’E’ CHI RESTA APPAGATO DAL SUCCESSO E SI FERMA A CLICHE’ VINCENTI. NON BASTA, OCCORRE ANDARE OLTRE"

“Il mio rapporto con il mondo rurale è vitale” ammette il noto critico letterario. Appartiene a una famiglia della borghesia agraria toscana e vive con orgoglio in una città dalle cui mura si vede subito la campagna: “Da me – dice – non c’è quella rottura, quella lacerazione terribile ch’è stata imposta altrove”


Daniela Marcheschi è critico letterario e poeta. Nata a Lucca, dove vive abitualmente, ha insegnato in università italiane e straniere, fra cui Uppsala e Salamanca. Attualmente insegna Antropologia con particolare riguardo all'Antropologia delle Arti a Perugia e fa parte della redazione della rivista di poesia e filosofia "Kamen’", nonché del Consiglio direttivo della Fondazione "Carlo Collodi". E’ autrice di numerosi saggi su autori italiani e scandinavi, oltre che di studi di teoria letteraria, tradotti in più lingue. Per la prestigiosa collana "Meridiani" di Mondadori ha curato nel 1995 l’edizione delle Opere di Carlo Collodi e nel 2004 di Giuseppe Pontiggia.



A parte la grande stima che ti riserva il mondo letterario, tra i vari riconoscimenti che hai ricevuto spicca un importante premio, il Rockefeller Award per la critica e la poesia, nel 1996. A fronte dei tanti successi e degli apprezzamenti finora conseguiti, quali sono gli elementi distintivi del tuo lavoro di critico? Come spiegheresti, a chi ignora questo mondo, il tuo personale approccio con la letteratura?
La critica nasce dal desiderio e dalla passione per la letteratura, ma anche dalla volontà di capire a fondo i meccanismi che animano un testo. Se non si approfondiscono gli aspetti tecnici, formali, gli aspetti teorici e di pensiero che sono dietro alle parole, si perde un senso forte del "fare" letteratura. Il mio lavoro di critico è venuto fuori da un bisogno personale di comprendere e lavorare meglio come autrice in proprio di versi.

La gente comune non ha ben chiaro il profilo e la funzione del critico letterario. Mi pare che si avverta una certa distanza tra critico e lettore. E’ forse la scuola a non aver saputo trasmettere l’importanza di un lavoro così fondamentale per l’approfondimento di un testo?
Il problema è che sul lavoro del critico vi sono spesso fraintendimenti. Si pensa a volte che sia un lavoro superfluo, invece dà un contributo fondamentale. Pesa purtroppo il fatto che la scuola, l'università e altro non ne chiariscano bene il ruolo. Si crede, sbagliando, che la critica non serva a penetrare il testo, ma solo per chiacchierare in maniera prolissa intorno a un testo. Non è così. La lettura critica è importante, aiuta in generale la scrittura, oltre che la percezione di un testo in particolare. Occorre però scendere il più possibile nel profondo, scavando nel testo in modo lungimirante. Certo, a volte si confondono con la critica tanti discorsi inutili. L’idea di "glossa" a margine, per esempio, a cui viene ridotto spesso l'esercizio critico fa dànni. Ma dovrebbe anche far riflettere il caso delle favole di Esopo con la morale "incorporata": la pratica stratificata della didattica ha fatto sì che le chiose dei maestri ad uso degli scolari venissero addirittura a far corpo con il testo. A parte ciò, va precisato che la comprensione della letteratura in realtà non può fare a meno dell’esercizio della critica, proprio perché si tratta di un momento forte che appartiene anch’esso alla letteratura, intimamente. La critica comporta un'idea di tradizione letteraria, una visione del passato, una percezione delle energie e delle aporie della letteratura presente, un progetto di futuro. Il critico, in modo diverso dall'autore, è un interprete delle tradizioni.

Dei cosiddetti critici militanti, quelli che scrivono sui grandi mezzi di comunicazione, quelli, per intenderci, che lanciano fenomeni editoriali come Giorgio Faletti, facendoli pure passare per "grandi scrittori"? Cosa dire?
Non c’è da sorprendersi. Poiché la critica è un genere, un’esperienza letteraria, e fa parte dunque della letteratura, anch’essa si articola a sua volta in sotto-generi. Nessuno penserebbe di confondere - per quanto a volte pure si tenti! - Liala con Manzoni, o con Dante. Il critico che lavora per un giornale dovrebbe semmai formare il lettore facendo capire subito a cosa è davanti. Poi, è ovvio, dipende molto dal modo in cui si è consapevoli del lavoro che si va svolgendo, ma anche dai libri stessi.

Tra i tuoi lavori più recenti c’è, per i "Meridiani" Mondadori, il volume Opere di Giuseppe Pontiggia. Che ricordo hai del grande Peppo?
Un ricordo straordinario. E’ lo scrittore che ho sentito più vicino. E’ il romanziere e l’intellettuale a cui mi sento più legata per il modo comune di intendere e vivere la letteratura. Ha scritto dei romanzi che avrei da sempre voluto leggere, voglio dire da quando stavo sui banchi del liceo e avvertivo un confuso disagio per un certo tipo di letteratura contemporanea. Ecco, lui li ha realizzati. I suoi scritti sono stati per me un’esperienza fertile: mi hanno dato emozioni, mi hanno costretto a riflettere dandomi maggiore consapevolezza e strumenti e modalità nuove di approfondire la realtà e la letteratura. Di tutto questo ho poi sempre ridiscusso con lui, in un intreccio di scambi che è stato molto ricco per ambedue.

Tra gli autori delle ultime generazioni - i quarantenni-cinquantenni - chi ritieni sia degno di grande attenzione?
Non è facile rispondere. Ci sono autori di talento, ma c'è in giro anche molta superficialità e non mi sento in questo momento di far segnalazioni. Penso che la fiducia occorra concederla con coraggio ma anche con una certa prudenza. A volte non vedo nei nuovi autori la necessaria libertà interiore e la costanza, non sembrano affidabili. Peppo Pontiggia al contrario era molto affidabile come scrittore, e anche come persona. Non deludeva, non smetteva di cercare, pensare, studiare con amore la letteratura. Certi autori che oggi scrivono bene, avranno la stessa determinazione? Ci sono scrittori validi, beninteso; vorrei però aspettare un po' prima di esprimermi. L’idea che ho di letteratura travalica l'esito di un libro solo, comprende anche dei nodi teoretici, formali e dei modi di lavorare e approfondire la letteratura che si esplicano in un arco temporale esteso. Purtroppo oggi vi sono invece scrittori che restano appagati dal successo e si fermano ai cliché vincenti senza andare oltre.

Tra i nostri lettori abbiamo proposto una lista di sette autori del Novecento, chiedendo di esprimere una personale preferenza su quei testi che abbiano rappresentato con maggiore adesione ed efficacia il mondo rurale. Ed ecco Alvaro con Gente in Aspromonte, Camon con Un altare per la madre, Fenoglio con La Malora, Jovine con Le terre del Sacramento, Malerba con La scoperta dell’alfabeto, Sgorlon con Gli dèi torneranno e infine Silone con Fontamara. Avresti da suggerire altri titoli?
I titoli scelti sono interessanti. Coinvolgeranno senz’altro i lettori di “Teatro Naturale”. Potrei aggiungere, ma così, a caso e sul momento, Strindberg con Gli abitanti di Hemsö, Cesare Pavese, con Paesi tuoi, e, per la campagna e il paesaggio, Lawrence con Il pavone bianco, e Calamandrei con Inventario della casa di campagna, ma si potrebbero fare tanti altri nomi.

Credi sia oggi possibile un ritorno a temi legati all’agricoltura e più in generale alla ruralità? Dico: con un altro spirito, ovviamente, rispetto agli autori del Novecento. Nell’ultimo periodo per esempio c’è stato il dilagare di temi legati al cibo, con un riscontro di lettori notevole oltretutto…
Il problema è l’esperienza della realtà e come vi riflettiamo. Mi pare che oggi ci sia una certa uniformità di argomenti in campo letterario. Sembra che l’Italia sia solo rappresentata dalle grandi aree metropolitane, in realtà il nostro Paese non è solo questo. Guido Conti, in Cieli di vetro, racconta ad esempio la storia di un uomo che lavora in campagna. Mi meraviglio tuttavia che da parte del mondo editoriale ci si orienti piuttosto verso storie metropolitane, mentre l’Italia, lo ripeto, non è solo quella delle (poche) grandi città. Molti piccoli centri sono attivi e dinamici, hanno modi di vita interessanti, non ci sono solo centri piccoli, chiusi in se stessi: la provincia. Può essere molto provinciale anche una grande città: lo insegna Proust, il cui primo volume della Recherche ha descrizioni suggestive della campagna, fra l'altro. Quanto ai continui riferimenti al cibo in narrativa, è un tema che senza dubbio è molto sentito, ma ora sembra piuttosto un fenomeno di moda. Ciò che conta è scrivere senza indulgere troppo alle mode, affrontando temi importanti, che riguardano davvero i lettori, e che diano risposte ai molti interrogativi irrisolti.

Le nuove generazioni sono però lontane dalla ruralità, manca in loro una sensibilità che li riconduca a certi ambienti, a contesti ritenuti a torto marginali…
C’è troppa autoreferenzialità, e spesso si scrivono libri pensati solo ad uso di certi gruppi, magari di certe case editrici, per certe situazioni ed esperienze limitate. Si può fare letteratura su qualsiasi argomento, naturalmente, ma occorre essere in grado di affrontarne i punti più vivi.

E che i temi siano forti…
E che i temi e il modo di affrontarli siano forti; ma occorre soprattutto che la narrazione tocchi la verità, “il sé che coincide con gli altri”, per dirla ancora con Pontiggia.

Ai lettori di “Teatro Naturale” che libri consiglieresti?
Oltre ai bei libri di poesia che sono usciti quest’anno, Armi e mestieri di Giampiero Neri, Cerchi d’acqua di Pier Luigi Bacchini, in cui la natura è sempre presente, consiglierei loro i grandi romanzi che forse non hanno ancora letto, dove si incontrano la natura e la "natura" urbanizzata, quella piegata a paese, a città dall’uomo. Leggere George Eliot o Conrad, per esempio. Mi piacerebbe anche che leggessero Il Viaggio per l'Italia di Giannettino, scritto da Collodi e pensato per i ragazzi del suo tempo. Il libro racconta com’era l’Italia, com’era la campagna, qual era la realtà di un tempo che non esiste più, e può far riflettere su ciò che eravamo e che siamo ora. E’ un libro, questo, su cui dovrebbero meditare anche i grandi.

Per concludere, raccontami il tuo personale rapporto con il mondo rurale. Vivi in Toscana, a Lucca, quindi in un contesto che non ignora certo la ruralità, perché ce l’ha nel sangue…
Il mio rapporto è vitale. Abito in una città dalle cui mura si vede subito la campagna, che è a pochi minuti a piedi o in bicicletta. E’ una città, Lucca, inserita in modo armonico nella campagna. Non c’è quella rottura, quella lacerazione terribile ch’è stata imposta altrove. Ho mantenuto un rapporto molto stretto con la natura, e anche per questo ho deciso di tornare a vivere a Lucca. Ecco, la mia passione sta nel fare lunghe passeggiate o escursioni in bicicletta, in aperta campagna, salendo in collina. Non vedo la campagna solo come uno scenario, come Arcadia…

E’ invece un legame ben più stretto e profondo, visto che hai delle proprietà rurali…
Sì, è vero, il mio non è solo un legame di maniera, non vivo la natura soltanto come fuga dalla città o come idillio. E’ anche il rapporto di una persona che appartiene per parte materna a una certa borghesia agraria toscana e ha ancora la possibilità di avere alcune proprietà agricole. Queste costituiscono, sì, un onere, ma anche una fonte di ricchezza spirituale oltreché reale. Infatti, non va dimenticato, sono un solido legame con il passato, un passato rappresentato nel mio caso da affetti, memorie, segni di molte generazioni. C’è allora un rispetto maggiore per i campi, gli alberi, sappiamo le ragioni di certe scelte, sappiamo chi ha voluto certe cose, perché le ha volute e che cosa significherebbe perderle in un certo modo.

E’ un segno del passato, un passaggio di consegne per le generazioni future…
Sì, è qualcosa che lega ad una memoria di affetti, a persone che hanno vissuto, lavorato e visto la realtà in una certa maniera. E’ qualcosa che riguarda persone capaci di trasmettere dei valori di libertà e rettitudine che ricordiamo molto bene e di cui manteniamo ben vivo il ricordo con i più giovani. Un esempio da salvaguardare e un modo concreto per rimanere uniti a persone da cui discendiamo.

di Luigi Caricato