Editoriali 03/10/2009

Non serve dirigismo, ma una riforma dei meccanismi




Tutti gli indicatori economici e sociali confermano che il settore agricolo costituisce un perno della strategia di crescita nei prossimi anni. Per questo Confagricoltura crede in un’agricoltura efficace e sostenibile. Siamo perfettamente in linea con le indicazioni che vengono dal G8: i 12 miliardi di dollari che i “Grandi” intendono destinare nei prossimi tre anni al settore primario vanno indirizzati verso infrastrutture, logistica, tecnologia e ricerca, migliorando il sostegno allo sviluppo dell’agricoltura, che negli ultimi anni ha invece subito una contrazione nelle disponibilità delle risorse.

Ottobre sarà il mese della verità per le nostre imprese, che sinora hanno sostenuto il Paese in crisi con la loro anticiclicità. In un panorama economico indiscutibilmente difficile nonostante i vari cenni di ripresa, l’agricoltura ha fatto da diga, dando un contributo essenziale al Pil, contenendo l’inflazione e dando uno sbocco occupazionale importante a molte migliaia di italiani che si sono trovati senza lavoro (il settore impiega nel Paese circa un milione e mezzo di persone). Senza dimenticare le ulteriori valenze del primario a soccorso dell’economia con l’impegno nella produzione energetica. Noi, dunque abbiamo fatto da argine alla congiuntura e lo faremo ancora, finchè ne avremo le forze.

Ma la nostra capacità di tenuta non è senza limiti: i costi di produzione aumentano, mentre export e consumi interni si contraggono. In altre parole: le spese salgono e gli incassi scendono. A ciò si aggiunge che non abbiamo i mezzi per confrontarci ad armi pari con i nostri competitori, compresi i partner dell’Unione Europea. La Francia, ad esempio, sostiene con centinaia di milioni di euro la sua agricoltura. Può l’Italia essere da meno?

La Ue diminuisce i fondi a disposizione, quindi l’Italia deve essere abile nel segnalare tempestivamente a Bruxelles le sue priorità. Noi siamo pronti a fare la nostra parte a fianco della buona politica, ma va assolutamente sancito il definitivo ingresso dell’agricoltura nei meccanismi economici del Paese, oppure il settore rischia di non essere più alimentato.

Vanno anche rinforzate le strutture al servizio dell’agricoltura per rilanciare l’export e ci si deve rendere conto che la qualità non può essere un’esperienza sensoriale, ma un parametro ben definito, così come il legame con il territorio non è un fatto meramente produttivo, ma ambientale. Quindi: più mercato, più ricerca, più innovazione e meno denominazioni d’origine solo sulla carta.

Quella dell’origine è una battaglia dai contorni ideologici. Una sorta di dirigismo di stampo kolkoziano che viene contrapposto al libero mercato. Si vuole “educare il consumatore”, imponendo una teoria che ha molte zone d’ombra. Per quanto elemento commerciale considerevole, il dato sull’origine non può essere considerato fondamentale per l’agricoltura nazionale, che deve, prima di ogni altra cosa, potersi avvalere di una serie di strumenti per contenere i costi, ridurre la burocrazia, avere un mercato del lavoro efficiente e giovarsi della promozione integrata in tutta la filiera.

L’etichetta d’origine ha certamente una sua validità per quanto riguarda la tracciabilità, ovvero conoscere da dove viene il prodotto, ma è un vero azzardo pensare che l’origine sia, da sola, una certezza di qualità alimentare. Quindi il teorema può essere così enunciato: etichetta d’origine è uguale a informazione, ma non a sicurezza.

Origine non è di per sé sinonimo di qualità, così come non lo sono i prezzi. L’errore sta nel pensare di far valere regole diverse da quelle del mercato. Un ombrello di protezione può sostenere un prodotto più o meno debole, ma non garantirlo e, se le informazioni sulla provenienza del prodotto possono venire dalla tracciabilità, la competitività viene dal “brand” e da un contesto di mercato favorevole. Il punto critico sta nel gap agricolo che deriva dalla bassa redditività, un fattore che non consente alle aziende di creare propri brand. Quindi per brand, confezionamento del prodotto e pubblicità che portino ad un buon inserimento sugli scaffali della Gdo ci vogliono fondi. In parte possono essere pubblici, in parte provenire dalle banche.

Come appare da una serie di esempi: dalla carne bovina al latte, dal miele al pollame, alle uova, sino ai vini Doc e Docg legare il prodotto al territorio e garantirne la provenienza non è automatica garanzia di successo. Considerare l’origine esaustiva ai fini della competitività è un errore commerciale, ma anche politico, perché può lacerare la filiera più del mercato stesso.

La visione, ribadisco, deve essere di impostazione economica: l’agricoltura è un settore che, pur nella crisi, manifesta una capacità di tenuta superiore agli altri. Gli imprenditori agricoli accettano la sfida e investono nell’innovazione. Crisi significa cambiamento e la parte più matura del nostro mondo è pronta a cambiare. L’innovazione è un elemento cruciale per il successo di un’impresa. Innovare è una delle principali sfide dell’imprenditore agricolo per ridurre costi sempre più rilevanti, migliorare i prodotti differenziandoli da quelli dei competitor e guadagnare così posizioni sul mercato.

Un’indagine eseguita dal Censis per Confagricoltura sulla “minoranza trainante” delle aziende agricole italiane (quelle che rappresentano meno del 30 per cento del totale ed il 90% del valore aggiunto del settore) ha dimostrato che i nostri imprenditori non vivono in modo problematico fattori di competitività, come l’innovazione di prodotto, il miglioramento delle tecniche di coltura, la distribuzione e la commercializzazione. Insomma, per oltre l’80 per cento delle imprese agricole “che contano” il cambiamento innovativo non è un aspetto che determina particolari problemi.

Le difficoltà reali del settore sono piuttosto quelle esterne, indipendenti dalla capacità di “fare impresa”, come l’aumento dei costi di produzione (ritenuto “molto critico” dal 74,8% del totale degli intervistati), il costo del lavoro (69,9%) la difficoltà a reperire manodopera qualificata (62,9%) e la burocrazia (55,3%).

Quel che ci aspettiamo è una semplificazione del lavoro di chi sta sul territorio. L’eccellenza produttiva, da sola, non serve se non ha dalla sua una filiera efficiente in ogni passaggio, compresi quelli che riguardano la burocrazia.
E’indispensabile che sulla qualità gravino meno costi: se le certificazioni si pagano - e molti imprenditori non sono più disponibili a questi esborsi, quando potrebbe bastare un’autocertificazione - ben più costa un sistema di pastoie burocratiche che fa spendere ad ogni impresa l’equivalente di 110 giornate lavorative all’anno.

Non ci serve dirigismo, ci serve una riforma dei meccanismi che oggi sovrintendono alla qualità. L’agricoltura non può sopportare il peso di un’impalcatura, un tempo motivata, ma che adesso è diventata piombo nelle ali del settore.




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