Libri 13/12/2008

La pera e il formaggio. Breve storia di un abbinamento a prima vista audace

Il gusto come capacità di accedere a un sapere istintivo, naturale, pre-culturale. Alfonso Pascale recensisce la nuova opera di Massimo Montanari




E' in libreria un nuovo libro di Massimo Montanari che parla del proverbio: “Al contadino non far sapere / quanto è buono il formaggio con le pere”. Quante volte lo abbiamo ripetuto senza mai chiederci cosa significhi realmente? Nell’enunciarlo si prova, tuttavia, una difficoltà a decifrarlo come se ci trovassimo dinanzi ad un enigma. E per offrire una spiegazione plausibile oggi si è soliti attribuirgli un senso burlesco ed ironico: “Non abbiamo alcun bisogno di farglielo sapere perché il contadino, che produce sia il formaggio che le pere, già lo sa”. E’ senz’altro questo il significato che nel Novecento è prevalso.

C’è addirittura una versione allungata del proverbio, rivendicativa e liberatoria, diffusa ancora oggi nella campagna senese, che fa emergere in modo chiaro il senso che noi oggi gli attribuiamo: “Al contadino non far sapere / quanto è buono il formaggio con le pere. / Ma il contadino, che non era coglione, / lo sapeva prima del padrone”. Ed ecco spuntare, in questa versione campagnola, i termini di un conflitto sociale da incuriosire lo storico e indurlo ad indagare non solo le origini del proverbio, ma anche il diverso significato che questo assume a seconda della provenienza sociale di chi lo enuncia.

La ricerca accurata e ricca di riferimenti bibliografici e documentari di Montanari ci restituisce la storia complessa del formaggio e delle pere: il ruolo essenziale svolto dal primo nella mensa dei pastori e dei contadini e quello prestigioso e di lusso che i frutti delicati e deperibili assumevano nell’alimentazione dei signori; la difficile ascesa sociale del primo e la funzione salutistica assolta dall’accostamento dei due cibi consumati alla fine del pasto.

Per un lungo periodo il formaggio è stato emblema degli umili, per i quali rappresentava la fonte primaria di nutrizione, ed ha svolto una funzione di puro abbellimento nelle mense dei ricchi. Dagli antichi romani al Medioevo è il cibo che serve a sfamare i contadini e che vede tra le classi superiori molti pregiudizi, ancor più confermati dalle perplessità della scienza medica che ne consiglia un uso moderato.

Ma proprio dal Medioevo inizia la riabilitazione del formaggio. Esso diventa il cibo dei monasteri, dove per ragioni di penitenza ci si astiene dalla carne, e viene consumato dai cristiani nei periodi "di magro" prescritti dal calendario liturgico.

La pera, invece, è per il nostro Autore il simbolo dell’effimero, di gusti e piaceri non necessari. Coltivare alberi da frutto è una realtà economica di pregio e le pere sono doni preziosi che solo i nobili si scambiano. Siccome si conservano poco a causa della loro delicatezza, meglio non coltivarne troppe e destinarle appunto solo alle tavole dei signori. Nel Seicento si ha una vera e propria infatuazione per le pere, che vengono paragonate addirittura al corpo di una gentildonna.

E a questo punto si può meglio intuire come nasce l'abbinamento audace tra i due cibi. Il contadino formaggio, una volta accolto nella mensa dei signori, poteva essere nobilitato solo unendosi in matrimonio con una gentildonna. E la scelta cade appunto sulla pera.

La scienza medica del tempo è, tuttavia, diffidente nei confronti del formaggio e ancor più nei confronti dei frutti. E solo quando un medico italiano, Castor Durante da Gualdo, afferma in un testo scientifico che il “nocumento” del cacio si può ridurre “mangiandosi seco in compagnia di pere”, cadono le perplessità e la pratica gastronomica viene finalmente confortata dal riconoscimento della sua convenienza dietetica. Ancora una volta sono le pere a venire in soccorso del formaggio. E a questo punto le classi alte possono adottare, senza preoccupazione, l’accoppiata formaggio/pere a fine pasto.

Ma come la mettiamo con la rigida distinzione sociale del cibo? Qui il saggio di Montanari offre argomenti di notevole interesse per farci comprendere come i signori tentano di risolvere il dilemma. Tra il Medioevo e il XVI Secolo si riteneva che, da un lato, il bisogno di mangiare genera il desiderio e che, dall’altro, la natura di un cibo genera il suo sapore; e quando il desiderio e il sapore si incontrano positivamente nell’atto gustativo – vale a dire, quando il cibo piace - significa che la natura di quel cibo si addice al bisogno fisiologico di chi lo sta mangiando. Tutta la letteratura medica e filosofica del tempo è pervasa da questa convinzione.

Ma posta in questi termini la questione del gusto, per l’Autore non si poteva non riconoscere a chiunque - perfino ai contadini - la capacità di accedere a un sapere istintivo, naturale, pre-culturale, che non nasce dalla teoria e neppure dalla pratica.

La cultura medievale credette di risolvere il problema con un assioma semplicistico: essendo il gusto istintivo, ma gli uomini diversi, a ciascuno ‘naturalmente’ piacciono cose diverse. Ma ben presto venne il sospetto che anche al contadino potesse piacere il cibo del signore. E ciò avrebbe sconvolto l’ordine ‘naturale’ della società.

E’ a quel punto che, accanto al gusto, viene elaborata la nozione di buongusto, come capacità di scegliere il cibo. Da allora non è più vero che “è buono ciò che piace” ma che “piace ciò che è buono”, ciò che convenzionalmente è giudicato tale dalla cerchia degli intenditori. Il gusto in tal modo si configura come “dispositivo di differenziazione sociale”.

Diventa necessario allora negare il sapere a chi non ne è socialmente degno. Imponendo un sistema d’ignoranza nelle campagne, i proprietari terrieri pensano di conservare il proprio potere. Da qui il detto “Al contadino non far sapere...”. Il proverbio esprime questa cultura. E’ costruito a uso e consumo della classe dominante che vuole negare l’istruzione di quelle subalterne. Il senso viene capovolto, dove si ha l’ardire di farlo, solo in segno di rivalsa.

Ma una volta risolti i conflitti di classe nelle aree rurali e venuta meno la contrapposizione tra città e campagna, anche i binomi sapore/sapere e gusto/buongusto perdono il connotato di coppie conflittuali e diventano termini complementari. E il senso del proverbio si carica quindi di una forte carica di ambivalenze.

Conoscere la storia che è dentro il proverbio non è, dunque, un mero esercizio di erudizione, come si potrebbe pensare. Noi che non siamo più né contadini né nobili rischiamo di enunciarlo rimanendo perplessi se non ne comprendiamo la connaturata ambiguità.



Massimo Montanari, Il formaggio con le pere. La storia in un proverbio, Editori Laterza, 2008, pp. 162, euro 15



di Alfonso Pascale